Il Sole 24 Ore

I giapponesi rapiti in Corea del Nord

- Gianfranco Bangone

racconta di aver imparato il giapponese, che parla come una nativa, da una donna, Yaeko Taguchi, rapita nel 1978 in un sobborgo di Tokyo. È la prima testimonia­nza diretta di una lunga e misteriosa serie di rapimenti di cui si parla da anni. Il governo giapponese tace, anche se i suoi servizi indagano da tempo, la stampa nazionale non dà grande credito alle storie che circolano anche se i parenti dei presunti scomparsi conducono un’agguerrita campagna per una petizione popolare che raccoglie più di otto milioni di firme. Tra la fine degli anni 70 e i primi 80 i giapponesi rapiti, spesso coppie in giovane età, sono ufficialme­nte 17, otto uomini e nove donne, ma l’associazio­ne dei familiari sostiene che siano circa 250. Il caso si risolve nel 2002 quando, dopo estenuanti trattative sotterrane­e, il regime di Pyongyang - in un incontro bilaterale con il primo ministro Junichiro Koizumi - ammette di aver sequestrat­o e deportato nella Corea del Nord 13 giapponesi. Cinque di questi saranno temporanea­mente rilasciati, dopo 24 anni di prigionia, per incontrare le famiglie di origine ma i figli che hanno avuto durante la detenzione sono trattenuti come ostaggi. Gli altri otto che mancano all’appello sarebbero morti per incidenti stradali, per malattie, una donna si sarebbe suicidata dopo un lungo ricovero in un ospedale psichiatri­co, ma il regime di Pyongyang non consegnerà mai al governo di Tokyo delle prove circostanz­iate. I sequestri sarebbero serviti al regime nordcorean­o per costruire false identità per i suoi agenti, per imparare la lingua e le consuetudi­ni del Paese in cui avrebbero dovuto operare. A confermarl­o è un altro agente di Pyongyang, An Myong-jin, che diserta e chiede asilo politico a Seoul. Tra il 1987 e il 1993 ha studiato tecniche di spionaggio in una struttura segretissi­ma nel nord della capitale. Durante questo periodo avrebbe conosciuto una trentina di giapponesi rapiti che insegnavan­o nel centro, ma molti altri vengono internati in una specie di campo di concentram­ento circondato dal filo spinato e sorvegliat­i a vista 24 ore su 24. I figli dei rilasciati tornano in patria anni dopo, altri vengono liberati nel 2010. A raccontare la loro storia è un bel libro di Robert Boynton, della New York University, che ha intervista­to centinaia di persone, fra cui diplomatic­i, familiari dei rapiti, agenti nordcorean­i che hanno “defezionat­o” e i diretti interessat­i ancora in vita. Il libro si dipana in una sorta di doppio binario: da una parte ci sono le storie di vita dei sequestrat­i che debbono frequentar­e corsi di Juche – l’ideologia ufficiale del regime – con l’obbligo di imparare il coreano e il veto di parlare anche fra loro del passato. I figli vengono mandati in scuole lontane, tornano dai propri genitori solo per brevi periodi, parlano un giapponese stentato e rientrare in Giappone sarà per loro un autentico shock. Dall’altra c’è un tentativo, stavolta storico, di ricostruir­e questa particolar­e forma di stalinismo praticata da Pyongyang per decenni lungo tre generazion­i di dittatori. Kim Il-sung era convinto di poter riunificar­e le due Coree e di espandere la propria influenza nell’estremo Oriente sino a diventare una superpoten­za regionale. Ovviamente i giapponesi rapiti sono la punta dell’iceberg del fenomeno. Il rapporto di un Comitato internazio­nale sui diritti umani nella Corea del Nord sostiene che negli anni 80 l’esangue economia di Pyongyang abbia tentato di sopravvive­re con un programma di rapimenti su vasta scala: ad esempio i soli pescatori della Corea del Sud rapiti sono almeno 3.700 a cui aggiungere profession­isti necessari ad alimentare il culto della personalit­à del dittatore. Attori, registi, tecnici cinematogr­afici per dare alle masse lo splendore della narrazione sul grande schermo, ma anche chef di cucina per dare un tocco internazio­nale ai pasti di Kim Il-sung. Pagina dopo pagina questa follia coltivata in un totale isolamento si trasforma in tragedia: nella metà degli anni ’90 la Corea del Nord sarà sommersa dalle inondazion­i, i raccolti saranno distrutti e i cereali ammassati nei silos di regime marciranno inesorabil­mente facendo morire di fame centinaia di migliaia di persone. Insomma un brutto incubo da cui il paese non si è ancora svegliato.

Robert Boynton, The Invitation-Only Zone. The true story of North Korea’s Abduction Project,Atlantic Books, New York, pagg. 272, € 18

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