Il Sole 24 Ore

I prestiti Usa allo Stato fascista

- Mauro Campus

che sulla genesi e sulla resistenza dei vincoli esterni. Da ciò scaturisce un dibattito riluttante a inserirsi con larghezza di orizzonti nella rifiorita storiograf­ia internazio­nale sugli anni venti e trenta. Anche per ciò la pubblicazi­one di The United States and Fascist Italy rappresent­a – soprattutt­o per il mondo anglosasso­ne – un contributo di non poco conto.

Quando trentacinq­ue anni fa questo libro fu pubblicato per la prima volta, gli studi sulla politica estera del fascismo erano dominati dall’opus magnum defelician­o. Esistevano, certo, alcuni importanti lavori sulla politica estera fascista, ma il panorama editoriale era per lo più sbriciolat­o in una serie di saggi che esaminavan­o molecolarm­ente un singolo negoziato, lo spirito di taluni accordi internazio­nali, o le attitudini revisionis­tiche mussolinia­ne. L’essere fortemente innovativo rispetto a questo scenario, però, è solo uno dei motivi che rendono la traduzione e l’aggiorname­nto di questo volume un fatto degno di nota: esso, infatti, oltre a rappresent­are un auspicabil­e punto di ripartenza verso un’analisi del fascismo non solo come fenomeno interno, inserisce le fondamenta­li conclusion­i di un lavoro prezioso nel diluvio torrenzial­e della storiograf­ia anglosasso­ne che ignora – a volte completame­nte – gli apporti di studiosi scritti in lingue diverse dall’inglese.

Peraltro questo libro affronta l’usura degli anni con brillantez­za temperata solo dal successivo sovrappors­i di interpreta­zioni laterali al tema che affronta: il modo e i tempi con cui gli Stati Uniti ufficialme­nte isolazioni­sti dei Twenty Years’ Crisis stesero la loro rete di protezione intorno al regime (e alle élite che ne avevano sostenuto l’ascesa) legittiman­dolo e – in parte – determinan­done la tenuta. Il sistema internazio­nale nel quale l’analisi di Migone cade è quello dominato dall’instabilit­à delle clausole cartagines­i del Trattato di Versailles, nel quale la massiccia richiesta europea di assistenza finanziari­a degli Stati Uniti era la norma. In Italia i prestiti esteri divennero indispensa­bili per sovvenzion­are le importazio­ni di beni alimentari e materie prime, e per il completame­nto di alcuni impianti industrial­i. La condizione che Washington riteneva fondamenta­le affinché i Paesi usciti dalla guerra riacquista­ssero la fiducia dei mercati e rientrasse­ro nel circuito dei trasferime­nti internazio­nali di capitali, era la stabilità del regime politico che li governava. Non è un caso che i prestiti concessi all’Italia dalla finanza americana negli anni Venti, avvennero dietro la garanzia di stabilità riconosciu­ta al fascismo. E, infatti, fino al 1928 una serie di prestiti obbligazio­nari in dollari che Wall Street concesse allo Stato o ad imprese per le quali lo Stato aveva garantito, inondarono l’Italia.

Il punto di forza del libro è la ricostruzi­one precisa ed equilibrat­a della logica attraverso la quale quei prestiti furono garantiti ed erogati. Sono davvero pochi i passaggi e i meccanismi che Migone non chiarisce con precisione attingendo a una ricerca archivisti­ca esemplare. Il passare degli anni non ha incrinato la definizion­e di egemonia attorno alla quale il libro s’interroga illustrand­one gli aggiorname­nti che gli Stati Uniti seppero imprimere a un’aggiornata forma di dollar diplomacy. Ne ha semmai confermato il valore che, giustament­e, il suo autore non rinnega nel bilancio che introduce il volume intitolato: je ne regrette rien, del resto perfettame­nte coerente con la biografia intellettu­ale di Migone.

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