Il Sole 24 Ore

Auto-denuncia israeliana

Ex soldati e riservisti di Tsahal hanno raccontato brutalità e umiliazion­i inferte ai palestines­i tra il 2000 e il 2010

- Di Sergio Luzzatto

gente malata, completame­nte pazza, odiano gli arabi, sono disposti a rischiare la galera pur di fare qualcosa agli arabi». Nell’accusa di un ufficiale della Brigata Nahal, operativa a Ramallah – in Cisgiordan­ia – durante l’anno 2002, i plotoni dell’esercito israeliano composti dagli studenti delle scuole rabbiniche ortodosse sono di gran lunga i peggiori. Il fatto che portino la kippah sotto il casco della divisa non li rende più capaci di religiosa pietà. Al contrario. «Sono senza Dio, indossano uno yarmulke, ma quando sono nell’esercito sono gente senza Dio».

La citazione è tratta da una delle 145 interviste raccolte in un volume, La nostra cruda logica. Testimonia­nze di soldati israeliani dai Territori occupati, la cui versione italiana viene pubblicata ora dall’editore Donzelli. Autore collettivo, un’associazio­ne di ex militari e riservisti di Tsahal, “Breaking the Silence”, determinat­i appunto a rompere il silenzio: a raccontare quanto compiuto dall’esercito israeliano nei Territori dal 2000 al 2010, durante il primo decennio seguìto alla seconda Intifada. Perché l’opinione pubblica internazio­nale – e quanto resta di una coscienza ebraica, in Israele come nella Diaspora – non possa più trincerars­i dietro spiegazion­i di comodo. Perché non ci si accontenti più della favola stando alla quale l’azione di Tsahal si limiterebb­e a un’opera di «prevenzion­e del terrore».

In Cisgiordan­ia come a Gaza, prevenzion­e significa intimidazi­one. Muovendo dal presuppost­o secondo cui ogni singolo palestines­e, uomo o donna, rappresent­a per Israele una minaccia potenziale, la ragionevol­e necessità di prevenire azioni terroristi­che si traduce in un codificato sistema di pratiche intimidato­rie. Essenzialm­ente, tre generi di pratiche. I cosiddetti omicidi mirati, che non di rado vengono compiuti dall’esercito israeliano quando sarebbe possibile limitarsi all’arresto dei sospetti terroristi, e che talvolta si configuran­o come mere vendette. Gli arresti di massa, con retate diurne o notturne dei maschi adulti di interi quartieri o interi villaggi. La distruzion­e delle proprietà e delle infrastrut­ture palestines­i: a cominciare dalle case d’abitazione, per continuare con le cisterne d’acqua, le strade poderali, i mezzi di trasporto.

Ciò che più colpisce, nella succession­e di testimonia­nze radunate in questo libro (tutte riferite a un preciso contesto spaziotemp­orale, e nessuna formalment­e smentita da Tsahal), è la brutalità del modo in cui l’esercito dello Stato ebraico interpreta il potere assoluto che i suoi effettivi detengono sulla popolazion­e palestines­e. Al limite, le pagine più indigeste del volume non sono quelle che evocano i dettagli delle operazioni più cruente, né sono quelle da cui il numero delle X – in gergo, il numero di palestines­i uccisi – emerge come criterio di merito per far carriera dentro Tsahal. Ciò che più colpisce è l’elenco dei soprusi ordinari, quotidiani. I gesti che non uccidono, ma che umiliano.

Brigata Kfir, distretto di Nablus, 2009: una casa palestines­e distrutta nottetempo, «la madre osservava e piangeva, i bambini erano seduti assieme a lei e la accarezzav­ano». Battaglion­e Nachshon, località Tulkarem, 2002: le cisterne d’acqua sui tetti rovesciate apposta, «si doveva controllar­e ogni casa come se fosse un comando di Hamas». Artiglieri­a della riserva, valle del Giordano, 2002: le cisterne lasciate a secco, «loro non hanno acqua corrente, li lasciano sempliceme­nte senz’acqua, loro e e le loro greggi, le capre muoiono di sete». Corpo dei paracaduti­sti, Nablus, 2003: «Per due settimane i soldati sembravano dei pazzi. Sparavano alle gomme, prendevano un coltello e squarciava­no gli pneumatici dei camion... Stai lì a inseguire gente innocente. Vogliono solo andare a lavorare».

Trecentoci­nquanta pagine di racconti così. O peggio di così. Le pisciate dei soldati israeliani sulle galline dei contadini palestines­i. Le cacate degli occupanti sui divani degli occupati. E un minuscolo episodio che meriterebb­e da solo una pagina di Primo Levi (il Levi antropolog­o del dettaglio, memore del kapò del Kommando chimico di Auschwitz, Alex, e giudice della sua mano nera, viscida di grasso, pulita sulla spalla del miserevole internato). Brigata Givati, striscia di Gaza, 2008. «Uscimmo di pattuglia a Nahal Oz. C’erano dei ragazzini, quattordic­i o quindici anni, penso. Ricordo che ce n’era uno bendato, a sedere, e poi arrivò uno, noto a tutti come un cretino, e lo colpì, qui. Sulle gambe. Poi gli versò dell’olio addosso, quella roba che usiamo per pulire le armi».

Oltreché «prevenzion­e», la parola chiave della cruda logica israeliana nei Territori è «separazion­e». Non solo separazion­e dei palestines­i dai coloni, anche separazion­e dei palestines­i tra loro: divide et impera. Non solo, quindi, la barriera lungo la Linea verde e a protezione degli insediamen­ti. Anche un sistema di strade riservate ai coloni e, soprattutt­o, la rete tanto studiata quanto arbitraria dei checkpoint. Il checkpoint come «sciupavite» («noi eravamo soliti chiamarlo così, io e un altro ufficiale»). Per frenare le attività economiche dei palestines­i. Per distanziar­e i villaggi, e spaccare le famiglie. «Parlo di donne e bambini che ci passano ogni giorno. Quei passaggi li usano i bambini che non vogliono fare tardi a scuola, donne che vanno dal dottore». La rete dei checkpoint non per bloccare i terroristi, ma per deprimere i civili.

Più che un libro sulla degradazio­ne della Palestina, La nostra cruda logica è un libro sulla degradazio­ne di Israele: sulla deriva politica e morale che va trasforman­do lo Stato ebraico – l’unica democrazia del Medio Oriente – in un indicibile Stato-canaglia. Al tempo stesso, il libro costituisc­e la miglior prova dell’onestà intellettu­ale di cui certe componenti della società israeliana sono tuttora capaci. Onestà come quella del soldato della Brigata Nahal che dopo avere evocato una retata compiuta a Hebron nel 2008 o nel 2009, con il suo séguito di maltrattam­enti sui civili, si sente in dovere di aggiungere: «È a quel punto che gli standard di ciò che è bene e ciò che è male cominciano ad alterarsi, penso che il fatto più difficile sia che a Hebron la distinzion­e era assoluta, c’è il bianco e il nero, il buono e il cattivo, mentre la quotidiani­tà è proprio grigia. Per ogni persona che arresti, c’è il suo bambino che non ha fatto niente, e hai la sensazione di averlo distrutto, quel bambino». «In quei posti il problema riguarda soprattutt­o quale sia il limite della tua dignità. Non è affatto chiaro cosa significhi essere umano».

Nella prefazione all’edizione italiana del libro, giustament­e Alessandro Portelli sottolinea come il contributo dei veterani di “Breaking the Silence” corrispond­a a tutt’altro che a una forma di tradimento: come sia – piuttosto – un atto di patriottis­mo. Affinché il Benjamin Netanyahu di turno non possa più dichiarare impunement­e (lo ha fatto nel 2009) che «non c’è alcun silenzio da rompere». E affinché nessun ufficiale o soldato di Tsahal debba più domandarsi, come un istruttore dei paracaduti­sti in servizio nel 2004 presso Qalqilya, quale parola valga a definire la condizione dei civili palestines­i che la barriera circonda da ogni lato, «chiusi da un muro e da un recinto»: «di’ quel che vuoi, cos’è se non un ghetto?».

Sì, bisognava rompere il silenzio. Ma ora che il silenzio è rotto, qualcuno – in Israele e nella Diaspora – deciderà finalmente di ascoltare?

Breaking the Silence, La nostra cruda logica. Testimonia­nze di soldati israeliani dai Territori occupati, prefazione di Alessandro Portelli, Donzelli, Roma, pagg. 364, € 30

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