Auto-denuncia israeliana
Ex soldati e riservisti di Tsahal hanno raccontato brutalità e umiliazioni inferte ai palestinesi tra il 2000 e il 2010
gente malata, completamente pazza, odiano gli arabi, sono disposti a rischiare la galera pur di fare qualcosa agli arabi». Nell’accusa di un ufficiale della Brigata Nahal, operativa a Ramallah – in Cisgiordania – durante l’anno 2002, i plotoni dell’esercito israeliano composti dagli studenti delle scuole rabbiniche ortodosse sono di gran lunga i peggiori. Il fatto che portino la kippah sotto il casco della divisa non li rende più capaci di religiosa pietà. Al contrario. «Sono senza Dio, indossano uno yarmulke, ma quando sono nell’esercito sono gente senza Dio».
La citazione è tratta da una delle 145 interviste raccolte in un volume, La nostra cruda logica. Testimonianze di soldati israeliani dai Territori occupati, la cui versione italiana viene pubblicata ora dall’editore Donzelli. Autore collettivo, un’associazione di ex militari e riservisti di Tsahal, “Breaking the Silence”, determinati appunto a rompere il silenzio: a raccontare quanto compiuto dall’esercito israeliano nei Territori dal 2000 al 2010, durante il primo decennio seguìto alla seconda Intifada. Perché l’opinione pubblica internazionale – e quanto resta di una coscienza ebraica, in Israele come nella Diaspora – non possa più trincerarsi dietro spiegazioni di comodo. Perché non ci si accontenti più della favola stando alla quale l’azione di Tsahal si limiterebbe a un’opera di «prevenzione del terrore».
In Cisgiordania come a Gaza, prevenzione significa intimidazione. Muovendo dal presupposto secondo cui ogni singolo palestinese, uomo o donna, rappresenta per Israele una minaccia potenziale, la ragionevole necessità di prevenire azioni terroristiche si traduce in un codificato sistema di pratiche intimidatorie. Essenzialmente, tre generi di pratiche. I cosiddetti omicidi mirati, che non di rado vengono compiuti dall’esercito israeliano quando sarebbe possibile limitarsi all’arresto dei sospetti terroristi, e che talvolta si configurano come mere vendette. Gli arresti di massa, con retate diurne o notturne dei maschi adulti di interi quartieri o interi villaggi. La distruzione delle proprietà e delle infrastrutture palestinesi: a cominciare dalle case d’abitazione, per continuare con le cisterne d’acqua, le strade poderali, i mezzi di trasporto.
Ciò che più colpisce, nella successione di testimonianze radunate in questo libro (tutte riferite a un preciso contesto spaziotemporale, e nessuna formalmente smentita da Tsahal), è la brutalità del modo in cui l’esercito dello Stato ebraico interpreta il potere assoluto che i suoi effettivi detengono sulla popolazione palestinese. Al limite, le pagine più indigeste del volume non sono quelle che evocano i dettagli delle operazioni più cruente, né sono quelle da cui il numero delle X – in gergo, il numero di palestinesi uccisi – emerge come criterio di merito per far carriera dentro Tsahal. Ciò che più colpisce è l’elenco dei soprusi ordinari, quotidiani. I gesti che non uccidono, ma che umiliano.
Brigata Kfir, distretto di Nablus, 2009: una casa palestinese distrutta nottetempo, «la madre osservava e piangeva, i bambini erano seduti assieme a lei e la accarezzavano». Battaglione Nachshon, località Tulkarem, 2002: le cisterne d’acqua sui tetti rovesciate apposta, «si doveva controllare ogni casa come se fosse un comando di Hamas». Artiglieria della riserva, valle del Giordano, 2002: le cisterne lasciate a secco, «loro non hanno acqua corrente, li lasciano semplicemente senz’acqua, loro e e le loro greggi, le capre muoiono di sete». Corpo dei paracadutisti, Nablus, 2003: «Per due settimane i soldati sembravano dei pazzi. Sparavano alle gomme, prendevano un coltello e squarciavano gli pneumatici dei camion... Stai lì a inseguire gente innocente. Vogliono solo andare a lavorare».
Trecentocinquanta pagine di racconti così. O peggio di così. Le pisciate dei soldati israeliani sulle galline dei contadini palestinesi. Le cacate degli occupanti sui divani degli occupati. E un minuscolo episodio che meriterebbe da solo una pagina di Primo Levi (il Levi antropologo del dettaglio, memore del kapò del Kommando chimico di Auschwitz, Alex, e giudice della sua mano nera, viscida di grasso, pulita sulla spalla del miserevole internato). Brigata Givati, striscia di Gaza, 2008. «Uscimmo di pattuglia a Nahal Oz. C’erano dei ragazzini, quattordici o quindici anni, penso. Ricordo che ce n’era uno bendato, a sedere, e poi arrivò uno, noto a tutti come un cretino, e lo colpì, qui. Sulle gambe. Poi gli versò dell’olio addosso, quella roba che usiamo per pulire le armi».
Oltreché «prevenzione», la parola chiave della cruda logica israeliana nei Territori è «separazione». Non solo separazione dei palestinesi dai coloni, anche separazione dei palestinesi tra loro: divide et impera. Non solo, quindi, la barriera lungo la Linea verde e a protezione degli insediamenti. Anche un sistema di strade riservate ai coloni e, soprattutto, la rete tanto studiata quanto arbitraria dei checkpoint. Il checkpoint come «sciupavite» («noi eravamo soliti chiamarlo così, io e un altro ufficiale»). Per frenare le attività economiche dei palestinesi. Per distanziare i villaggi, e spaccare le famiglie. «Parlo di donne e bambini che ci passano ogni giorno. Quei passaggi li usano i bambini che non vogliono fare tardi a scuola, donne che vanno dal dottore». La rete dei checkpoint non per bloccare i terroristi, ma per deprimere i civili.
Più che un libro sulla degradazione della Palestina, La nostra cruda logica è un libro sulla degradazione di Israele: sulla deriva politica e morale che va trasformando lo Stato ebraico – l’unica democrazia del Medio Oriente – in un indicibile Stato-canaglia. Al tempo stesso, il libro costituisce la miglior prova dell’onestà intellettuale di cui certe componenti della società israeliana sono tuttora capaci. Onestà come quella del soldato della Brigata Nahal che dopo avere evocato una retata compiuta a Hebron nel 2008 o nel 2009, con il suo séguito di maltrattamenti sui civili, si sente in dovere di aggiungere: «È a quel punto che gli standard di ciò che è bene e ciò che è male cominciano ad alterarsi, penso che il fatto più difficile sia che a Hebron la distinzione era assoluta, c’è il bianco e il nero, il buono e il cattivo, mentre la quotidianità è proprio grigia. Per ogni persona che arresti, c’è il suo bambino che non ha fatto niente, e hai la sensazione di averlo distrutto, quel bambino». «In quei posti il problema riguarda soprattutto quale sia il limite della tua dignità. Non è affatto chiaro cosa significhi essere umano».
Nella prefazione all’edizione italiana del libro, giustamente Alessandro Portelli sottolinea come il contributo dei veterani di “Breaking the Silence” corrisponda a tutt’altro che a una forma di tradimento: come sia – piuttosto – un atto di patriottismo. Affinché il Benjamin Netanyahu di turno non possa più dichiarare impunemente (lo ha fatto nel 2009) che «non c’è alcun silenzio da rompere». E affinché nessun ufficiale o soldato di Tsahal debba più domandarsi, come un istruttore dei paracadutisti in servizio nel 2004 presso Qalqilya, quale parola valga a definire la condizione dei civili palestinesi che la barriera circonda da ogni lato, «chiusi da un muro e da un recinto»: «di’ quel che vuoi, cos’è se non un ghetto?».
Sì, bisognava rompere il silenzio. Ma ora che il silenzio è rotto, qualcuno – in Israele e nella Diaspora – deciderà finalmente di ascoltare?
Breaking the Silence, La nostra cruda logica. Testimonianze di soldati israeliani dai Territori occupati, prefazione di Alessandro Portelli, Donzelli, Roma, pagg. 364, € 30