Che effetti mostruosi!
di Pier Francesco Maestrini, concertata da Donato Renzetti con colta curiosità. E suonata benissimo.
Il costruttore di campane Enrico perde la sua più bella, che gli viene sottratta da villosi fauni zoccoluti, ferocemente ostili alla costruzione di chiese, perché distruggono la natura. Però in cambio guadagna una giovane creatura silvana, dal nome squillante di Rautendelein: piedi scalzi, lunghi capelli ramati e probabili doti di strega, dal momento che il lamentoso campanaro dopo averla incontrata ringiovanisce (qui con parrucca vistosa) e torna vigoroso a forgiare enormi battacchi variamente interpretabili su incudini wagneriane. Ma Enrico non è solo. Ha una mite moglie, Magda, con due piccini da mettere educati a tavola, uno di qua e l’altra di là. Saranno loro, con voci amplificate e proiettati come un incubo, alti come tutto il palcoscenico, trasformati in giganti del Sinis (c’è una interessante mostra archeologica a Cagliari, sui titani di Mont’e Prama) a scovare il padre nel rifugio sui monti, annunciando che la mamma non c’è più. Sommersa, anche lei, come la campana. Le due voci si fondono, nella mente delirante di Enrico, ormai finito.
E Rautendelein? La bella, per disperazione, o per altri personali motivi, accetta L’Ondino (con l’articolo, nel terribile libretto di Carlo Guastalla, tratto da un dramma di Gerhart Hauptmann). Lui è tutto verde, squamoso, eroico, e i laboratori del Lirico di Cagliari hanno lavorato con un artigianato spettacolare per ricreare in teatro una mostruosità che di solito si ottiene solo con gli effetti speciali del cinema. Si esprime con caratteristici “Brekekekex” oppure “Quorax”, per la gioia dei commenti nell’intervallo. Sembra un ramarro, con lunga coda, e vive in un antro petroso, dove agilmente si rifugia. A vederlo tanto disinvolto si pensa quanta distanza lo separi dal primo interprete di Banco, nel Macbeth di Verdi, che si rifiutava di apparire a tavola come fantasma lordato di sangue. Beccandosi le reprimenda del compositore furioso.
A parte la buca, che suona sempre, impegnata come se dovesse eseguire alternati Debussy e Wagner – e Respighi è un maestro nel tesserli insieme – l’eroe della Campana sommersa è il tenore. Morto da poco Puccini, e dunque finita la grande stagione del melodramma, non si sa più dove metterne la vocalità eroica, il declamato, le lacrime, l’urlo. Enrico le somma insieme, sostenute strenuamente da Angelo Villari: un peccato veniale l’intonazione che cede talvolta, esposta in un registro perennemente acuto e scolpito. Lei è Valentina Farcas, agile nella coloratura, un po’ esile nel piglio verista. Ma quello spetta alla moglie, Magda, di Maria Luigia Borsi, graziata da una parte breve, sostanzialmente solo nel secondo atto. Importante il Fauno di Filippo Adami e bene Elfe, bimbi, il Nano di Sandro Meloni (una battuta, ma detta perfetta) e naturalmente l’Ondino di Thomas Gazheli. Trionfo. Brekekekex!
La campana sommersa di Respighi; direttore Donato Renzetti, regia di Pier Francesco Maestrini; Cagliari, Teatro Lirico, oggi ultima replica