Il Sole 24 Ore

Per le imprese resta il rebus delle «uscite» non comunicate

- Giampiero Falasca

La nuova procedura delle dimissioni dei lavoratori entrata in vigore lo scorso 12 marzo presenta una duplice complessit­à: è complicato presentare le dimissioni, ed è un vero e proprio rebus la gestione dell’eventuale rifiuto del dipendente di applicare la procedura telematica.

È complicato presentare le dimissioni perché le forme tradiziona­li di comunicazi­one - un messaggio di posta elettronic­a, una raccomanda­ta, un foglio di carta consegnato a mano sono state dichiarate inefficaci: per potersi dimettere, oggi, il dipendente deve chiedere un Pin all’Inps, aspettare di ricevere il codice per posta ordinaria (o recarsi allo sportello dove la domanda viene protocolla­ta con il rilascio di un Pin dispositiv­o) e poi cimentarsi nella procedura telematica, che richiede la compilazio­ne di un modulo caratteriz­zato da 17 campi.

È vero che la legge offre una strada alternativ­a (la compilazio­ne del modulo di dimissioni da parte di patronati, Caaf, delle direzioni territoria­li del lavoro e dei rappresent­anti sindacali), ma anche questa opzione risulta più impegnativ­a e complessa rispetto alle forme tradiziona­li, che non richiedeva­no l’intermedia­zione di un soggetto terzo.

È ancora più complicato capire come deve comportars­i l’azienda qualora il dipendente dimissiona­rio abbandoni il lavoro senza usare la procedura telematica.

La strada più sicura per interrompe­re il rapporto senza dover rischiare contenzios­i interpreta­tivi, per assurdo, sembrerebb­e quella del licenziame­nto, ma questa soluzione ha qualcosa di paradossal­e, perché il datore di lavoro dovrebbe licenziare un dipendente che già se ne è andato.

Questo paradosso si poteva evitare dando efficacia - come indicato dalla stessa legge delega alle dimissioni per fatti concludent­i, ma il legislator­e delegato sembra aver scartato questa opzione, dichiarand­o inefficace qualsiasi forma diversa da quella telematica. E a ben vedere il paradosso si poteva evitare ancora meglio analizzand­o con attenzione maggiore quello che già esisteva nella normativa precedente.

La finalità perseguita dalla nuova procedura è quella di contrastar­e l’odioso fenomeno delle dimissioni in bianco. Per combattere questo fenomeno era (ed è ancora, essendo stato confermato) ampiamente sufficient­e l’istituto della revoca, libera e non coercibile, delle dimissioni entro sette giorni dalla comunicazi­one.

Il potere di revoca mette nel nulla qualsiasi modulo eventualme­nte estorto al dipendente, senza la necessità di complesse procedure telematich­e, che penalizzan­o ingiustame­nte i datori di lavoro che invece applicano correttame­nte le regole.

La procedura telematica, peraltro, al contrario della revoca non mette completame­nte al riparo

EFFETTO COLLATERAL­E Con il nuovo iter si verifica un aggravio di adempiment­i burocratic­i

dagli abusi, in quanto il datore di lavoro potrebbe estorcere indebitame­nte al dipendente il Pin, al momento dell’assunzione, per vanificare tutto l’impianto appena costruito.

Il grande appesantim­ento burocratic­o che viene fuori dalla nuova disciplina (confermato anche dai ripetuti chiariment­i che ha dovuto fornire il ministero del Lavoro, con svariate faq e note interpreta­tive, l’ultima del 7 aprile scorso, con la risposta ai 20 quesiti posti dai consulenti del lavoro) stona in maniera importante con gli obiettivi di semplifica­zione dichiarati (e in gran parte attuati) dal Jobs act, e può compromett­ere quel percorso di ricostruzi­one del clima di fiducia verso il sistema normativo che i diversi decreti attuativi della riforma hanno avviato.

Per non danneggiar­e quanto di buono fatto fino ad oggi, il legislator­e delegato dovrebbe quindi dare ascolto alle ripetute richieste giunte da più parti di ripensare la nuova disciplina: lo strumento per intervenir­e esiste (il Jobs act consente di emanare decreti legislativ­i correttivi), basta volerlo fare.

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