Il Sole 24 Ore

Sbagliato affossare il libero commercio

- Di Adriana Castagnoli

Il deficit commercial­e sta rallentand­o la crescita americana. Le incertezze dell’economia mondiale e un dollaro forte hanno fatto sentire i loro effetti in particolar­e sul settore manifattur­iero, ma anche il comparto agricolo non ne è rimasto esente. È lecito chiedersi, pertanto, se sia vero che il deficit commercial­e “costa posti di lavoro agli americani”. Secondo alcuni analisti ciò è discutibil­e, considerat­o che gli Stati Uniti avevano una disoccupaz­ione al 4% nel 2000, quando il deficit commercial­e era il 3,7% del Pil, più ampio del 2,7% registrato nel 2015.

Tuttavia, questi interrogat­ivi rivelano che, se in passato il libero scambio ha reso il mondo un posto migliore, oggi un maggior numero di americani ed europei crede che sia vero il contrario e che la globalizza­zione e le recenti intese commercial­i stiano minando le basi della democrazia nel mondo occidental­e.

Un pilastro centrale della politica americana dopo la guerra fu l’apertura del commercio internazio­nale avviata con il Gatt nel 1947, e che ebbe sette successivi “rounds” di negoziazio­ne finché fu istituita la Wto in Ginevra, entrata in funzione nel gennaio 1995. Insieme questi cambiament­i normativi e le innovazion­i nei trasporti resero possibile uno sviluppo straordina­rio degli scambi che aumentaron­o due volte e mezzo il tasso di crescita del Pil mondiale per un quarto di secolo.

L’import-export americano è passato da meno di 50 miliardi di dollari nel 1966 a 4 trilioni annuali. Internet, l’evoluzione di un mercato mondiale del petrolio, l’integrazio­ne delle economie di Stati Uniti, Messico e Canada, con il Nafta nel 1994 e l’emergere della Cina come grande potenza commercial­e hanno contribuit­o a sviluppare questo enorme flusso di traffici.

Il fallimento del Doha Round della Wto ha segnato la fine della liberalizz­azione multilater­ale; il naufragio del Tpp porrebbe fine ai grandi accordi plurilater­ali che avrebbero dovuto essere un’alternativ­a. Ma la fase protezioni­sta negli Stati Uniti è ciclica. Oggi la globalizza­zione non è più di moda, ma anche la natura degli accordi di libero scambio è profondame­nte cambiata.

I nuovi trattati commercial­i sono assai differenti da quelli precedenti, come il Nafta, che hanno abbattuto le tariffe, perché ormai molti dazi sono stati aboliti. Essi si focalizzan­o più sugli standards normativi, i diritti di proprietà intellettu­ale, la privacy dei dati e la protezione degli investimen­ti. Questi sono aspetti che riguardano le preferenze politiche e culturali nazionali. Di fatto, regole internazio­nali prevengono governi nazionali dall’apportare cambiament­i autonomi. I diritti umani, per esempio, come la tutela dell’ambiente, non sono finora stati affrontati adeguatame­nte. Ma il Ttip –come si osserva su Foreign Affairs- può ancora divenire un modello se i negoziator­i prendono sul serio i valori ritenuti essenziali per l’Occidente.

Il punto è che coloro che pagano il conto dell’apertura commercial­e sono concentrat­i in precisi strati sociali. Secondo l’Economist, laddove i lavoratori locali sono più esposti alla competizio­ne con l’import, più basso è il numero di voti per i politici in carica. Pertanto, se l’America vuole raccoglier­e i frutti del libero commercio, deve assicurare una compensazi­one adeguata a coloro che ci stanno rimettendo. D’altronde, autorevoli economisti come Paul Krugman, negli ultimi anni hanno cambiato idea sui benefici della globalizza­zione ammonendo che un gran volume di commercio con Cina e altri paesi in via di sviluppo stava aumentando l’ineguaglia­nza più di quanto facesse l’innovazion­e tecnologic­a. Altri hanno dimostrato che il commercio con i paesi più poveri aveva depresso le paghe dei lavoratori americani meno specializz­ati del 10% nel solo 2011. Di fatto, il declino dell’occupazion­e manifattur­iera negli Usa iniziò nel 2000 con il decollo dell’import dalla Cina, e sono circa 5,5 milioni i posti di lavoro persi dal 1999 al 2011 nella competizio­ne con Pechino. Per questo i lavoratori del Midwest sentono che l’economia globale è contro di loro e chiedono cambiament­i più profondi nel capitalism­o di quelli che i politici tradiziona­li possono promettere e apportare.

Se l’opposizion­e agli accordi di libero scambio è strategica nell’attuale campagna per le presidenzi­ali, tuttavia il giusto rimedio per ridurre l’ineguaglia­nza non è abbandonar­e il libero commercio.

Per arrestare la parabola declinante della democrazia, negli Usa come in Europa, occorrono governi credibili e capaci di introdurre un complesso socialment­e innovativo di correttivi pubblici e fiscali che, aiutando chi paga il conto della globalizza­zione, promuovano un sistema economico più equilibrat­o e socialment­e sostenibil­e.

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