Sbagliato affossare il libero commercio
Il deficit commerciale sta rallentando la crescita americana. Le incertezze dell’economia mondiale e un dollaro forte hanno fatto sentire i loro effetti in particolare sul settore manifatturiero, ma anche il comparto agricolo non ne è rimasto esente. È lecito chiedersi, pertanto, se sia vero che il deficit commerciale “costa posti di lavoro agli americani”. Secondo alcuni analisti ciò è discutibile, considerato che gli Stati Uniti avevano una disoccupazione al 4% nel 2000, quando il deficit commerciale era il 3,7% del Pil, più ampio del 2,7% registrato nel 2015.
Tuttavia, questi interrogativi rivelano che, se in passato il libero scambio ha reso il mondo un posto migliore, oggi un maggior numero di americani ed europei crede che sia vero il contrario e che la globalizzazione e le recenti intese commerciali stiano minando le basi della democrazia nel mondo occidentale.
Un pilastro centrale della politica americana dopo la guerra fu l’apertura del commercio internazionale avviata con il Gatt nel 1947, e che ebbe sette successivi “rounds” di negoziazione finché fu istituita la Wto in Ginevra, entrata in funzione nel gennaio 1995. Insieme questi cambiamenti normativi e le innovazioni nei trasporti resero possibile uno sviluppo straordinario degli scambi che aumentarono due volte e mezzo il tasso di crescita del Pil mondiale per un quarto di secolo.
L’import-export americano è passato da meno di 50 miliardi di dollari nel 1966 a 4 trilioni annuali. Internet, l’evoluzione di un mercato mondiale del petrolio, l’integrazione delle economie di Stati Uniti, Messico e Canada, con il Nafta nel 1994 e l’emergere della Cina come grande potenza commerciale hanno contribuito a sviluppare questo enorme flusso di traffici.
Il fallimento del Doha Round della Wto ha segnato la fine della liberalizzazione multilaterale; il naufragio del Tpp porrebbe fine ai grandi accordi plurilaterali che avrebbero dovuto essere un’alternativa. Ma la fase protezionista negli Stati Uniti è ciclica. Oggi la globalizzazione non è più di moda, ma anche la natura degli accordi di libero scambio è profondamente cambiata.
I nuovi trattati commerciali sono assai differenti da quelli precedenti, come il Nafta, che hanno abbattuto le tariffe, perché ormai molti dazi sono stati aboliti. Essi si focalizzano più sugli standards normativi, i diritti di proprietà intellettuale, la privacy dei dati e la protezione degli investimenti. Questi sono aspetti che riguardano le preferenze politiche e culturali nazionali. Di fatto, regole internazionali prevengono governi nazionali dall’apportare cambiamenti autonomi. I diritti umani, per esempio, come la tutela dell’ambiente, non sono finora stati affrontati adeguatamente. Ma il Ttip –come si osserva su Foreign Affairs- può ancora divenire un modello se i negoziatori prendono sul serio i valori ritenuti essenziali per l’Occidente.
Il punto è che coloro che pagano il conto dell’apertura commerciale sono concentrati in precisi strati sociali. Secondo l’Economist, laddove i lavoratori locali sono più esposti alla competizione con l’import, più basso è il numero di voti per i politici in carica. Pertanto, se l’America vuole raccogliere i frutti del libero commercio, deve assicurare una compensazione adeguata a coloro che ci stanno rimettendo. D’altronde, autorevoli economisti come Paul Krugman, negli ultimi anni hanno cambiato idea sui benefici della globalizzazione ammonendo che un gran volume di commercio con Cina e altri paesi in via di sviluppo stava aumentando l’ineguaglianza più di quanto facesse l’innovazione tecnologica. Altri hanno dimostrato che il commercio con i paesi più poveri aveva depresso le paghe dei lavoratori americani meno specializzati del 10% nel solo 2011. Di fatto, il declino dell’occupazione manifatturiera negli Usa iniziò nel 2000 con il decollo dell’import dalla Cina, e sono circa 5,5 milioni i posti di lavoro persi dal 1999 al 2011 nella competizione con Pechino. Per questo i lavoratori del Midwest sentono che l’economia globale è contro di loro e chiedono cambiamenti più profondi nel capitalismo di quelli che i politici tradizionali possono promettere e apportare.
Se l’opposizione agli accordi di libero scambio è strategica nell’attuale campagna per le presidenziali, tuttavia il giusto rimedio per ridurre l’ineguaglianza non è abbandonare il libero commercio.
Per arrestare la parabola declinante della democrazia, negli Usa come in Europa, occorrono governi credibili e capaci di introdurre un complesso socialmente innovativo di correttivi pubblici e fiscali che, aiutando chi paga il conto della globalizzazione, promuovano un sistema economico più equilibrato e socialmente sostenibile.