Gli effetti indesiderati di (troppo) reverse charge
IL PUNTO L’utilizzo generalizzato, e non mirato, dello strumento potrebbe causare effetti distorti
L’applicazione del reverse charge per combattere le frodi Iva non è la “soluzione” e anzi, se applicata in modo generalizzato, potrebbe addirittura creare le condizioni per un allargamento del fenomeno. In questo contesto, la richiesta fatta alla Ue da alcuni Stati membri di essere autorizzati ad applicare temporaneamente un meccanismo “generalizzato” di reverse charge su tutte le transazioni interne, oltre a derogare ai principi generali della direttiva Iva (2006/112/Ce), è rischiosa per il corretto funzionamento del mercato unionale e può determinare uno spostamento della frode verso altri Stati membri e verso le vendite al dettaglio.
Questi effetti indiretti della autorizzazione di deroga, non sono solo una preoccupazione manifestata, in modo implicito, nel piano di azione Iva recentemente presentato dalla Commissione europea (comunicazione Com (2016) 148 finale del 7 aprile 2016), ma sono la diretta conseguenza di un meccanismo che si basa sullo spostamento sul cessionario/committente del debito d’imposta.
In effetti, se si consentisse a uno Stato membro di utilizzare il reverse charge (o inversione contabile) in tutte le operazioni interne i beni e i servizi arriverebbero fino all’ultimo passaggio verso il consumatore finale senza il versamento di alcuna imposta, ma solo con la sua liquidazione virtuale. Inoltre, limitando l’esempio ai beni è chiaro che lo spostamento del debito d’imposta sul cessionario provocherebbe due effetti distorti in relazione alle operazioni interne o transfrontaliere. Per le prime provocherebbe lo slittamento del fenomeno di frode nella cessione al dettaglio, cessione nella quale la parcellizzazione delle operazioni e le modalità di realizzazione determinerebbero un’oggettiva difficoltà di controllo. Al contrario, nelle operazioni transfrontaliere, assommando il reverse charge interno all’inversione contabile nel Paese dell’Unione di destinazione si sposterebbe con maggiore pericolosità la frode su quest’ultimo Stato che riceverebbe il bene senza imposta. In questo modo, rientrando nell’attuale quadro di riferimento, la situazione a monte non farebbe altro che alimentare (attraverso la creazione di cartiere) le frodi carosello. Si sottolinea che il fenomeno, come chiarisce la Commissione europea nel citato documento, è, allo stato attuale, stimato nella misura di 50 miliardi di euro (con un differenziale tra il gettito atteso e quello effettivo di ben 170 miliardi di euro).
L’esemplificazione fatta dimostra in modo palmare (anche se semplicistico, considerato lo spazio a disposizione) che il reverse charge invece di essere una soluzione al problema, può diventare la fonte di un ulteriore problema.
Chiaramente questo effetto distorto non si realizza nel caso in cui la regola sia adottata in modo mirato verso concreti e ben individuati fenomeni di frode e per un tempo limitato.
In effetti, il principio che a oggi rende ancora premiale l’adozione dell’Iva, quale imposta principe che informa tutti gli ordinamenti della Ue, è costituita dal fatto che la stessa, pur essendo, in linea di massima, neutra per gli operatori commerciali crea per gli Stati un gettito costante basato sull’applicazione per fasi dell’imposta e, nel frattempo contrappone gli interessi del cedente (che deve versare l’imposta) a quelli del cessionario (che deve vantare il credito per l’imposta anticipata al cedente).
Sulla base di queste premesse è chiaro che l’autorizzazione richiesta e che la Commissione vuole valutare in modo serio, non può essere concessa. A questo scopo e questa volta “per fortuna” la decisione dovrà essere presa all’unanimità da tutti gli Stati membri e si auspica che l’Italia, che dalla deroga potrebbe avere solo conseguenze negative, possa far sentire la sua voce anche votando contro.