Filantropia, un «valore» che fa bene
Grandi donazioni in crescita - I benefattori preferiscono l’anonimato
La virtù è più contagiosa del vizio, a condizione che venga fatta conoscere. Lo sosteneva Aristotele oltre 2300 anni fa e la massima vale a maggior ragione oggi nella società dell’informazione, che tende a stabilire rapporti di proporzione diretta tra la rilevanza dei fatti e la loro rappresentazione o visibilità. Con qualche eccezione, come sempre.
La filantropia, intesa come donazione di risorse e di tempo per finalità di bene comune, nel nostro Paese si sottrae alla regola, perché i benefattori, nella stragrande maggioranza dei casi, preferiscono ancora oggi rimanere anonimi, senza esposizione mediatica e senza bisogno di riconoscimento pubblico.
A rilevarlo è una ricerca realizzata dall’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che sarà presentato oggi a Milano (via San Prospero, 2, ore 11) e ha indagato i comportamenti filantropici degli High Net Worth italiani, ovvero le persone con un patrimonio (esclusa l’abitazione principale) superiore al milione di euro. Lo studio, giunto alla seconda edizione e condotto in collaborazione con il gruppo Kairos, che opera nel private banking e nel wealth management, evidenzia che l’80% dei grandi donatori rifugge da ogni forma di pubblicità. Una filantropia “all’italiana” che ci distingue dal mondo anglosassone, dove le erogazioni liberali contribuiscono i n modo rilevante alla costruzione di reputazione dei personaggi pubblici.
«Il fenomeno ha due spiegazioni», osserva Stefano Zamagni, “padre nobile” del non profit italiano ed ex presidente dell’Agenzia per il Terzo settore. «La prima ragione è che si teme, pubblicizzando la donazione, di aprire la porta ad altri richiedenti, tenuto conto della situazione di grande bisogno che caratterizza i nostri tempi.
La seconda motivazione, ben più profonda, ha a che fare con la cultura del sospetto prevalente nel nostro Paese, dove molti pensano che l’atto donativo serva in realtà a compensare condotte meno meritorie, per cui finisce per prevalere l’anonimato. Viceversa, negli Stati Uniti la donazione aumenta il capitale reputazionale del benefattore, che dunque è incentivato a far conoscere le proprie elargizioni». In definitiva, secondo Zamagni, si tratta di una modalità destinata ad essere progressivamente superata, ma il cambiamento richiederà tempi lunghi, in quanto il desiderio di anonimato affonda le radici nella scarsa fiducia generalmente riposta dagli italiani in chi ha fatto fortuna.
Al netto di questa propensione alla riservatezza, l’indagine dell’Unhcr segnala numerosi passi avanti nella pratica delle donazioni da parte dei cittadini più abbienti. Crescono, infatti, sia il numero, sia l’importo medio delle elargizioni: il 27% degli High Net Worth (contro il 14% del 2014) hanno offerto di più nel 2015 rispetto all’anno precedente.
In dettaglio, aumentano le elargizioni superiori ai 10 mila euro, si impennano quelle fra 51 e 100 mila euro e, per la prima volta, si affacciano (uno per cento dei casi) anche quelle oltre i 100 mila euro.
«Gli High Net Worth del nostro Paese sono oggi più disposti a donare, anche attraverso lasciti solidali, e a dedicare tempo e risorse per produrre un impatto sociale positivo » , commenta Federico Clementi, direttore della raccolta fondi dell’Unhcr Italia. Che però aggiunge: «Sono dati incoraggianti, ma da leggere in controluce, in quanto le grandi donazioni sono ancora poco diffuse da noi, specie se paragonate ad altri contesti. Crediamo sia fondamentale promuoverle e incoraggiarle, a maggior ragione a fronte della crisi dei rifu- giati e del significativo divario esistente tra bisogni umanitari e fondi pubblici disponibili».
Per un grande donatore su due la motivazione principale a sostenere un’organizzazione è la percezione di “essere dei privilegiati”, mentre resta minoritario il numero di quanti legano la propria filantropia a una tradizione di famiglia o a valori religiosi.
Per quanto riguarda, invece, le cause sostenute dai filantropi, la ricerca scientifica e il benessere dei bambini risultano i n cima alle preferenze, mentre l’assistenza ai rifugiati conquista due punti percentuali rispetto al 2014, passando dall’8 al 10%.
L’indagine conferma che sono soprattutto le donne a manifestare propensione alla donazione. «Come hanno dimostrato numerosi studi di matrice anglosassone – ricorda Zamagni – il genere femminile mostra un maggiore sense of fairness, o senso di equità, rispetto a quello maschile. C’è una spiegazione biologica nella maggiore considerazione che la femmina ha per il benessere dell’altro, ma c’è anche una ragione culturale, perché nel governo della casa, tradizionalmente affidato alla donna, è necessario fare esercizio di equità».
I benefici fiscali sono giudicati un fattore potenzialmente importante per i comportamenti filantropici: oltre la metà degli intervistati si dichiara disposto a donare di più qualora il regime tributario fosse più attraente. Tuttavia, commenta Zamagni, «la variabile fiscale non è e non sarà mai la motivazione prevalente per i filantropi. Questi, infatti, nell’indagine dichiarano di agire in primis perché sono consapevoli di essere dei privilegiati. Il beneficio di una fiscalità più agevolata, semmai, aiuterebbe le organizzazioni destinatarie, aumentando le risorse nette a loro disposizione».
Lo scenario che la ricerca Unhcr consegna al futuro è quello di una filantropia con basi solide nel nostro Paese, ma destinata a subire profondi cambiamenti. «È in atto una transizione – riassume Zamagni - dalla consulenza filantropica all’intermediazione filantropica.
Nel primo caso il fundraiser è un professionista che si mette a disposizione di un’organizzazione e lavora per quella specifica missione. L’intermediario filantropico, invece, va a coltivare le possibili fonti di donazione e crea un portafoglio di opzioni, per indirizzarle poi ai potenziali beneficiari secondo l’orientamento dei benefattori.
L’affermazione progressiva di questa figura non potrà che dare anche in Italia nuovo impulso alla filantropia».