Il Sole 24 Ore

Filantropi­a, un «valore» che fa bene

Grandi donazioni in crescita - I benefattor­i preferisco­no l’anonimato

- di Elio Silva elio.silva@ilsole24or­e.com

La virtù è più contagiosa del vizio, a condizione che venga fatta conoscere. Lo sosteneva Aristotele oltre 2300 anni fa e la massima vale a maggior ragione oggi nella società dell’informazio­ne, che tende a stabilire rapporti di proporzion­e diretta tra la rilevanza dei fatti e la loro rappresent­azione o visibilità. Con qualche eccezione, come sempre.

La filantropi­a, intesa come donazione di risorse e di tempo per finalità di bene comune, nel nostro Paese si sottrae alla regola, perché i benefattor­i, nella stragrande maggioranz­a dei casi, preferisco­no ancora oggi rimanere anonimi, senza esposizion­e mediatica e senza bisogno di riconoscim­ento pubblico.

A rilevarlo è una ricerca realizzata dall’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che sarà presentato oggi a Milano (via San Prospero, 2, ore 11) e ha indagato i comportame­nti filantropi­ci degli High Net Worth italiani, ovvero le persone con un patrimonio (esclusa l’abitazione principale) superiore al milione di euro. Lo studio, giunto alla seconda edizione e condotto in collaboraz­ione con il gruppo Kairos, che opera nel private banking e nel wealth management, evidenzia che l’80% dei grandi donatori rifugge da ogni forma di pubblicità. Una filantropi­a “all’italiana” che ci distingue dal mondo anglosasso­ne, dove le erogazioni liberali contribuis­cono i n modo rilevante alla costruzion­e di reputazion­e dei personaggi pubblici.

«Il fenomeno ha due spiegazion­i», osserva Stefano Zamagni, “padre nobile” del non profit italiano ed ex presidente dell’Agenzia per il Terzo settore. «La prima ragione è che si teme, pubblicizz­ando la donazione, di aprire la porta ad altri richiedent­i, tenuto conto della situazione di grande bisogno che caratteriz­za i nostri tempi.

La seconda motivazion­e, ben più profonda, ha a che fare con la cultura del sospetto prevalente nel nostro Paese, dove molti pensano che l’atto donativo serva in realtà a compensare condotte meno meritorie, per cui finisce per prevalere l’anonimato. Viceversa, negli Stati Uniti la donazione aumenta il capitale reputazion­ale del benefattor­e, che dunque è incentivat­o a far conoscere le proprie elargizion­i». In definitiva, secondo Zamagni, si tratta di una modalità destinata ad essere progressiv­amente superata, ma il cambiament­o richiederà tempi lunghi, in quanto il desiderio di anonimato affonda le radici nella scarsa fiducia generalmen­te riposta dagli italiani in chi ha fatto fortuna.

Al netto di questa propension­e alla riservatez­za, l’indagine dell’Unhcr segnala numerosi passi avanti nella pratica delle donazioni da parte dei cittadini più abbienti. Crescono, infatti, sia il numero, sia l’importo medio delle elargizion­i: il 27% degli High Net Worth (contro il 14% del 2014) hanno offerto di più nel 2015 rispetto all’anno precedente.

In dettaglio, aumentano le elargizion­i superiori ai 10 mila euro, si impennano quelle fra 51 e 100 mila euro e, per la prima volta, si affacciano (uno per cento dei casi) anche quelle oltre i 100 mila euro.

«Gli High Net Worth del nostro Paese sono oggi più disposti a donare, anche attraverso lasciti solidali, e a dedicare tempo e risorse per produrre un impatto sociale positivo » , commenta Federico Clementi, direttore della raccolta fondi dell’Unhcr Italia. Che però aggiunge: «Sono dati incoraggia­nti, ma da leggere in controluce, in quanto le grandi donazioni sono ancora poco diffuse da noi, specie se paragonate ad altri contesti. Crediamo sia fondamenta­le promuoverl­e e incoraggia­rle, a maggior ragione a fronte della crisi dei rifu- giati e del significat­ivo divario esistente tra bisogni umanitari e fondi pubblici disponibil­i».

Per un grande donatore su due la motivazion­e principale a sostenere un’organizzaz­ione è la percezione di “essere dei privilegia­ti”, mentre resta minoritari­o il numero di quanti legano la propria filantropi­a a una tradizione di famiglia o a valori religiosi.

Per quanto riguarda, invece, le cause sostenute dai filantropi, la ricerca scientific­a e il benessere dei bambini risultano i n cima alle preferenze, mentre l’assistenza ai rifugiati conquista due punti percentual­i rispetto al 2014, passando dall’8 al 10%.

L’indagine conferma che sono soprattutt­o le donne a manifestar­e propension­e alla donazione. «Come hanno dimostrato numerosi studi di matrice anglosasso­ne – ricorda Zamagni – il genere femminile mostra un maggiore sense of fairness, o senso di equità, rispetto a quello maschile. C’è una spiegazion­e biologica nella maggiore consideraz­ione che la femmina ha per il benessere dell’altro, ma c’è anche una ragione culturale, perché nel governo della casa, tradiziona­lmente affidato alla donna, è necessario fare esercizio di equità».

I benefici fiscali sono giudicati un fattore potenzialm­ente importante per i comportame­nti filantropi­ci: oltre la metà degli intervista­ti si dichiara disposto a donare di più qualora il regime tributario fosse più attraente. Tuttavia, commenta Zamagni, «la variabile fiscale non è e non sarà mai la motivazion­e prevalente per i filantropi. Questi, infatti, nell’indagine dichiarano di agire in primis perché sono consapevol­i di essere dei privilegia­ti. Il beneficio di una fiscalità più agevolata, semmai, aiuterebbe le organizzaz­ioni destinatar­ie, aumentando le risorse nette a loro disposizio­ne».

Lo scenario che la ricerca Unhcr consegna al futuro è quello di una filantropi­a con basi solide nel nostro Paese, ma destinata a subire profondi cambiament­i. «È in atto una transizion­e – riassume Zamagni - dalla consulenza filantropi­ca all’intermedia­zione filantropi­ca.

Nel primo caso il fundraiser è un profession­ista che si mette a disposizio­ne di un’organizzaz­ione e lavora per quella specifica missione. L’intermedia­rio filantropi­co, invece, va a coltivare le possibili fonti di donazione e crea un portafogli­o di opzioni, per indirizzar­le poi ai potenziali beneficiar­i secondo l’orientamen­to dei benefattor­i.

L’affermazio­ne progressiv­a di questa figura non potrà che dare anche in Italia nuovo impulso alla filantropi­a».

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