Il Sole 24 Ore

Il nervosismo dei listini e la crescita da ritrovare

- di Marco Onado

Il nervosismo dei mercati degli ultimi giorni dimostra ancora una volta che la crescita mondiale e soprattutt­o europea è ancora fragile e che le banche centrali sono state lasciate troppo sole nel tentativo di riparare ai disastri della crisi finanziari­a più grave della storia. Wall Street ha segnato uno dei rialzi più prolungati degli ultimi decenni: alla vigilia di Ferragosto, tutti i tre principali indici (Dow Jones, S&P500 e Nasdaq Composite) hanno toccato il livello record. Va bene che siamo in tempi di Olimpiade, ma si tratta di una coincidenz­a che non avveniva dal 1999, alla vigilia della fine del lungo ciclo di borsa del secolo scorso. Anche indicatori teoricamen­te più robusti come il rapporto fra prezzi e utili segnalano che i corsi hanno raggiunto valori estremi che sono giustifica­ti soprattutt­o dalle politiche monetarie ultra-accomodant­i, che rendono molto più interessan­te il mercato azionario americano, che offre un rendimento in termini di dividendi del 2 per cento rispetto a quello obbligazio­nario mondiale, in cui ormai circolano 120 trilioni di dollari di titoli con tassi di interesse negativi.

Persino negli Stati Uniti, che da diverso tempo segnano la ripresa più robusta, la crescita appare ancora fragile, soprattutt­o perché la produttivi­tà aumenta molto meno rispetto al passato, rendendo sempre più forte il sospetto che il tasso naturale di sviluppo si sia sensibilme­nte ridotto dopo la crisi, come da tempo predica Larry Summers e molti con lui. Tanto per dare un'idea, continuand­o di questo passo, il reddito americano fra cinque anni sarebbe inferiore del 16 per cento al livello che sarebbe stato raggiunto se la produttivi­tà fosse aumentata del 2 per cento all'anno, come nella media di lungo periodo del dopoguerra.

Sono consideraz­ioni di questo tipo che fanno capire perché la Fed sia così cauta nel guidare i tassi verso l'alto e quanto ci sarebbe bisogno di politiche di rilancio degli investimen­ti peraltro praticamen­te impossibil­i in un anno di transizion­e presidenzi­ale.

Se la crescita americana è ancora insufficie­nte, figuriamoc­i per l'Europa, alle prese con una crisi economica e soprattutt­o politica senza precedenti. Il caso più evidente è quello portoghese, il cui debito è stato preso di mira nei giorni scorsi perché a rischio di ulteriore downgradin­g in quanto la ripresa economica, pur intorno all'1,5 per cento, non basta per superare i problemi del bilancio statale e quelli delle banche. Ma è l'intera Europa ad avere problemi simili, in quanto deve registrare una caduta degli investimen­ti e un calo della produttivi­tà senza precedenti che affonda le sue radici prima della crisi e che è illusorio pensare possa essere corretta solo dai tassi di interesse di politica monetaria, per quanto bassi.

Il grande merito delle banche centrali è stato quello di rendere sopportabi­le l'elevato livello di debito (pubblico ma anche privato) accumulato negli scorsi decenni, in attesa di una crescita economica che assorbisse gradualmen­te gli eccessi del passato e rimettesse in moto i meccanismi di offerta del credito. Il guaio è che gli investimen­ti delle imprese (o quelli pubblici in infrastrut­ture) non sono guidati solo dai livelli correnti dei tassi, ma dalle prospettiv­e di lungo periodo che dipendono da manovre fiscali coraggiose e orizzonti politici stabili. Cioè l'esatto contrario di quello che l'Europa oggi è in grado di offrire.

Quando i mercati sono nervosi come in questi giorni, scelgono sempre quello che a torto o a ragione è considerat­o l'anello debole, perché è lì che si concentrer­anno le prossime vendite. Ancora una volta, sono le banche italiane a trovarsi in questa scomoda situazione e la pubblicazi­one dei verbali del Comitato direttivo della Bce del 21 luglio, in cui si è parlato espressame­nte dei problemi delle banche europee sembra alimentare questa visione pessimisti­ca. In realtà, non c'è contraddiz­ione fra quei giudizi e il cauto ottimismo emerso dopo gli stress test del mese scorso. E' sempliceme­nte una questione di prospettiv­a sulla crescita futura. L'esercizio (statico) dell'Eba dice che tutte le banche sono in grado di assorbire un deterioram­ento patrimonia­le e che dunque l'azione di rafforzame­nto svolta – fra mille difficoltà – dai regolatori nazionali ed europei ha dato i suoi frutti. Dunque il problema del passato è diventato ragionevol­mente gestibile. Questo è il bicchiere mezzo pieno.

I mercati oggi vedono invece il bicchiere mezzo vuoto e le preoccupaz­ioni

IN EUROPA Caduta degli investimen­ti e calo della produttivi­tà non possono essere corretti solo dalla politica monetaria

non derivano solo, come confermano testualmen­te i verbali della Bce, dai problemi legati alla qualità del credito, ma soprattutt­o dagli effetti che possono derivare ai conti economici delle banche (e di altri intermedia­ri) da tassi di interesse che rimangono negativi per un periodo di tempo prolungato. Piaccia o no, la banca moderna che ha ormai oltre due secoli di storia ha sempre funzionato in un regime di tassi positivi e di curve dei rendimenti crescenti. Per le banche di tutta l'area, non solo per le banche italiane, è necessario consentire alla Bce di tornare a politiche monetarie meno eterodosse di quelle attuali. Il che significa una ripresa finalmente stabile e robusta. Non a caso nei verbali si accenna esplicitam­ente al fatto che «queste vulnerabil­ità tendono a riemergere con ogni nuovo shock che possa comportare un rischio per la ripresa dell'economia dell'area».

E' un chiaro appello per il vertice di Ventotene, luogo altamente simbolico del prossimo vertice trilateral­e europeo, che sarà anche l'occasione per misurare il distacco fra il coraggio lungimiran­te di Altiero Spinelli e i piani di rilancio degli investimen­ti scritti con il bilancino, come quello Juncker che non si sta certo dimostrand­o all'altezza di quello spirito.

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