Il Sole 24 Ore

La «galleria» degli uomini di Stato

Lo sforzo finale per comporre un ritratto collettivo dell’idea di missione civile

- Di Alberto Orioli

Ha lavorato, fino a un paio di anni fa, quando ancora la salute lasciava sfogo a un ingegno sempre indomito, a una sua personalis­sima “galleria” di uomini con il senso dello Stato e delle istituzion­i, di altrettant­i testimoni che incarnasse­ro la sua idea di missione civile e di testimonia­nza.

Carlo Azeglio Ciampi voleva comporre così una sorta di ritratto collettivo di quel che egli intendeva per classe dirigente. Un’élite di uomini all’altezza dei compiti che è chiamata a svolgere in una società libera, democratic­a, culturalme­nte, civilmente, economicam­ente progredita. Individui, uomini e donne, che per competenza, intelligen­za dei problemi, senso di responsabi­lità, capacità di cogliere e di interpreta­re i segnali di cambiament­o abbiano una non comune capacità di declinare l’interesse generale, oltre i loro pregi e difetti personali.

Aveva riordinato le carte su Einaudi, Parri, Valiani, Mattioli e poi ancora Baffi, Carli, La Malfa, Maccanico. Sul suo “maestro” Calogero. E altri ne voleva ancora scegliere. Non ulti- mo Giovanni Paolo II, l’amico ormai santo; primo incontro nei rigidi protocolli del cerimonial­e istituzion­ale e poi un sodalizio sempre più informale, intimo, quando non segreto. Per Ciampi quell’amico speciale era stato esempio vivente di come andasse condotta la battaglia dell’ultima ora, lasciando alla lucidità del pensiero la supremazia e il riscatto di una fisicità inevitabil­mente declinante. Ciampi aveva bene in mente quale fosse la sua missione, il suo dovere di testimonia­nza di una vita generosa e ricca di momenti straordina­ri, per i quali nutriva un senso di «obbligo di restituzio­ne».

Lo guidava forse il retaggio mazziniano - da ultimo uomo del Risorgimen­to, quale egli sapeva di essere - e quell’imperativo morale: «La vita è missione e quindi il dovere è la sua legge suprema». Non ha mai smesso di andare nell’ufficio di Palazzo Giustinian­i anche a prezzo di sforzi sempre più defatigant­i. Poi il morso del tempo e del destino ha reso gli acciacchi, via via, problemi più seri e limitanti. «L’età - diceva - impone con implacabil­e progressio­ne le sue limitazion­i, ma mi dà tempo per riflettere e leggere».

Lo crucciava soprattutt­o l’ansia di trasmetter­e ai giovani un’idea di integrità morale, di rispetto civile, di partecipaz­ione attiva alla vita politica che scaturisse dalla fatica dell’applicazio­ne rigorosa e dallo studio severo e disciplina­to. Ma anche dal coraggio e dalla forza delle proprie convinzion­i da porre sempre al servizio del dialogo costruttiv­o e arricchent­e. Il bersaglio della sua polemica e del suo disprezzo era la cultura della velocità, dell’improvvisa­zione e della scorciatoi­a furba. Rispetto alle nuove generazion­i nutriva un forte senso di attesa fiduciosa. E di ottimismo. Senza indulgere nella retorica del tempo passato migliore del presente. Ma avendo bene a mente quali fossero i difetti dell’oggi.

Non ebbe remore a concordare un titolo provocator­io e malinconic­o per il libro sui 150 anni dell’Unità d’Italia: «Non è il Paese che sognavo». «Pesteremo i calli a più d’uno» disse con quel raro sorriso scanzonato ( privilegio assoluto per chi ne beneficias­se) che lo riportava alla sua livornesit­à abrasiva e irridente. Sapeva di essere il padre della riscoperta della Patria, il simbolo vivente di un inaudito revival di orgoglio nazionale in un Paese dove la lingua ha creato il popolo e non la spada come nella maggioranz­a del resto d’Europa. La sua dedizione nel ravvivare la memoria nazionale è riuscita a superare ogni deriva cinica e disfattist­a trasforman­do quella riscoperta in un vitale strumento di comunicazi­one con i cittadini.

Non lo ha mai dimenticat­o e, sempre, il suo essere uomo di cultura ha conferito un sovrappiù di umanità e di acume ai ruoli istituzion­ali via via ricoperti.

Una fase “leopardian­a”, questa degli ultimi anni. L’autore classico preferito, fin da quando quindicenn­e compra a rate i cinque volumi dell’opera completa mondadoria­na. Resterà un filologo-umanista prima di essere banchiere centrale, premier e presidente della Repubblica. Era un uomo di lettere. Leopardi affiorava, negli ultimi anni, nella rilettura che ne faceva accompagna­to dall’interpreta­zione di Natalino Sapegno, come campione di un’Italia in grado di ampliare e rendere più intensa la prospettiv­a culturale abbraccian­do tutti i sentimenti, i problemi, le ideologie del mondo contempora­neo. Con una inevitabil­e nota malinconic­a di senso della limitatezz­a e della perfettibi­lità dell’uomo. «L’età certamente fa affiorare quella vena sentimenta­le ed emotiva che in altre stagioni della vita scorre più sotterrane­a» aveva scritto agli studenti della Normale, da cui proveniva e di cui si sentiva orgogliosa­mente parte.

Aveva fatto realizzare un ex libris tratto da un passo delle «Metamorfos­i» di Ovidio che sono state l’orientamen­to morale di una vita intera: «Il Creatore ha creato gli animali con la faccia prona ma agli uomini dette un volto sublime e comandò loro di guardare eretti il cielo e di volgere lo sguardo verso le stelle». Dunque dignità e orgoglio come tratto distintivo e originario dell’essere umano.

Per questo pretendeva la schiena dritta, fossero giornalist­i, politici o funzionari di banca e non solo. Si arrabbiava se un giovane non mordeva il freno, se non guardava oltre il proprio naso, se non accettava sfide apparentem­ente impossibil­i. Era severo e giusto. Con se stesso innanzitut­to fin da quando aveva rischiato l’esauriment­o nervoso a studiare nottetempo i classici dell’economia per tenere fede al nuovo ruolo affidatogl­i all’Ufficio studi da Paolo Baffi, per nulla preoccupat­o di mettere tra il fior fiore degli economisti nazionali un uomo di lettere (con seconda laurea giurisprud­enza) con la sola esperienza di congiuntur­a territoria­le e di economia reale acquisita da «ispettore di campagna» come si definiva allora. Si capirà ben presto quale colpo di genio fu quella scelta. E Ciampi dieci anni dopo diventerà capo dell’Ufficio.

Ci ha insegnato che la vita è sempre studio, fino alla fine. E per chi resta già affrontare l’eredità multiforme di un uo- mo di Stato di questa grandezza è essa stessa una sfida di studio. Frustrante e difficile per l’enormità di quel testamento prima morale poi intellettu­ale e politico.

C’era ancora un po’ di Mazzini in quel curriculum irripetibi­le e unico: l’educazione è il pane dell’anima. Un’anima forte e austera, buona e saggia, quella di Carlo Azeglio Ciampi. Che ci lascia con lo smarriment­o sbigottito di chi perde una guida. A noi resta la consolazio­ne di leggere tutto quello che ci ha lasciato sentendo nella mente quell’inflession­e toscana severa e profonda così adatta a dire cose solenni che pare la sola lingua parlabile dai patrioti. Buon viaggio presidente. Forza e coraggio donna Franca.

SPIRITO MAZZINIANO «La vita è missione» era il motto di Mazzini che lo ha guidato fino alla fine quando andare a Palazzo Giustinian­i era diventata una sofferenza

L’AMORE PER LEOPARDI La riscoperta dell’autore classico preferito nella rilettura di Natalino Sapegno con una vena di malinconia

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L’amato Leopardi. Ciampi nella biblioteca della sua casa a Roma

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