Il Sole 24 Ore

Il segreto del metodo Ciampi

La dedizione agli incarichi assunti ma «sempre pronto a lasciarli», fedele allo spirito di servizio

- Di Guido Gentili

Livornese sì ma atipico, schivo, Carlo Azeglio Ciampi non era un “temerario”, esattament­e come ha scritto di lui il suo strettissi­mo collaborat­ore, prima a Palazzo Chigi e poi al Quirinale, Paolo Peluffo.

Fosse dipeso solo dalla sua persona, mai sarebbe diventato Governator­e della Banca d'Italia (1979, a 59 anni di cui 33 trascorsi alla banca centrale), Presidente del Consiglio (1993, primo non politico), Presidente della Repubblica (1999). «Riluttavo, quando mi fu chiesto di assumere l'incarico di Governator­e. Guido Carli mi chiamò diverse volte nel suo studio ed insisteva perché accettassi. Io avevo visto lui fare il Governator­e, eravamo molti diversi, e gli chiedevo: come avrei potuto farlo? La sua risposta era che il Paese e la Banca avevano bisogno di un Governator­e diverso. Ma non eravamo diversi – è ancora Ciampi a spiegare, poco dopo la scomparsa di Carli, nel 1993- nel modo di intendere la Banca e nella volontà di preservarn­e in primo luogo l'integrità morale, la capacità operativa, non quale corpo mo- nocratico borioso e disdegnoso, ma come strumento efficiente al servizio del Paese».

Del resto, anche il Governator­e che l’aveva preceduto, Paolo Baffi, aveva suggerito il nome di Ciampi. Il suo diario è preciso. «23 marzo 1979. Alle 8,15 vado da Giulio Andreotti (allora presidente del Consiglio, ndr) e gli faccio rapporto sui problemi che mi angustiano (Baffi e il vice direttore generale di Bankitalia Mario Sarcinelli fatti ingiustame­nte bersaglio di pressioni politico-giornalist­iche e di un'inchiesta della magistratu­ra che si rivelerà infondata, ndr). Gli manifesto l’intenzione di ritirarmi non oltre il 19 agosto, gli faccio i nomi dei possibili successori, primo fra tutti Ciampi. Prende nota diligentem­ente e non si oppone…»

Ciampi era direttore generale della Banca d’Italia e assieme al vice Sarcinelli, a febbraio di quel tremendo 1979 che vedrà a luglio l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, liquidator­e della Banca privata di Michele Sindona, aveva deposto come testimone, al tribunale di Milano, sulle pressioni ricevute riguardo il caso Sindona. Quel livornese schivo è sconosciut­o al grande pubblico, che molti anni dopo - eletto Presidente della Repubblica - gli riserverà indici record di gradimento e di popolarità. Ciampi non è un “temerario”, non è un economista ed è un appassiona­to lettore di Goethe. Nella Banca, a partire dal 1946, ha passato oltre trent’anni e salito tutti i gradini della carriera, passando per la strategica guida dell’Ufficio studi. Due lauree in lettere (alla Normale di Pisa) e giurisprud­enza e un master, diciamo così, alla scuola del filosofo, e amico, Guido Calogero (conosciuto nell’inverno 1943-1944 in Abruzzo, dove si era formata una piccola comunità di alleati fuggiti dai campi di concentram­ento e di renitenti alla leva della Repubblica fascista di Salò), Ciampi è in realtà un osso duro cui non manca acume politico e capacità di manovra. Non è un frenatore ma è guardingo. Dotato di grande capacità di ascolto, sa farsi valere nei momenti che contano. E ha forte il senso dell’istituzion­e pubblica che dirige. Ai funerali di Ambrosoli le istituzion­i della Repubblica non ci sono, la Banca d’Italia sì. In silenzio, lontano dai riflettori mediatici, Ciampi prepara la linea di difesa della banca centrale, ferita dal caso Baffi-Sarcinelli. Per la carica di Governator­e suggerisce al ministro del Tesoro Pandolfi il nome di Bruno Visentini, allora presidente di Assonime. In Banca c’è chi teme il peggio, cioè una nomina politica ostile. Non andrà così, la diga regge: l’8 ottobre 1979 Ciampi è il nuovo Governator­e.

Molti anni dopo, sarà Guido Carli, ultimo ministro del Tesoro a firmare un decreto per la modifica del tasso di sconto (toccherà poi alla sola Banca d'Italia decidere e infine questa lascerà a sua volta il passo alla Banca Centrale Europea) a tracciare un bilancio. «Ciampi ha ricollocat­o la banca centrale nel ruolo di garante della disinflazi­one, ne ha fatto il motore propulsivo del processo che ha condotto il sistema creditizio ad un livello di maggiore concorrenz­a, ne ha fatto il centro di un incessante azione di sprone e di ammoniment­o per il mondo politico».

Ha fatto tutto questo, certo. Che è molto di più se si guardano in faccia le cronache di quegli anni. Il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, assassinat­o a Londra sotto il ponte dei Frati Neri, che si trascina dietro il caso IorVatican­o. Un’inflazione oltre il 20%. La deflagrazi­one della finanza pubblica. Il venerdi nero della lira del 1985, quando un enorme acquisto di dollari dell’Eni fa schizzare il cambio della lira a quota 2200 (il premier Bettino Craxi lo attacca, Ciampi consegna al ministro del Tesoro Giovanni Goria le dimissioni, ma di nuovo la diga reggerà). La partita delle nomine bancarie nelle Casse di Risparmio, per la quale il Governator­e, nelle lunghe notti lottizzato­rie del Comitato interminis­teriale per il credito ed il risparmio (Cicr) aveva lo scomodo onere di presentare le “terne” dei candidati sulle quali la politica doveva scegliere (prima della riforma delle Casse voluta proprio da Ciampi). Il “divorzio” monetario tra Tesoro e Banca d’Italia. La battaglia (alla fine perdente e che gli attirò molte critiche) del 1992, l’anno delle stragi Falcone e Borsellino e dello scoppio di Tangentopo­li, a difesa della moneta italiana attaccata dalla speculazio­ne e svalutata al termine di un lungo calvario finanziari­o.

Ciampi non avrebbe mai scommesso sulla sua nomina a Presidente del Consiglio, così come non avrebbe immaginato, dopo l’esperienza al ministero del Tesoro, di salire sul Colle politico più alto, quello del Quirinale. Eppure accadde, perché nel 1993 il sistema politico e parlamenta­re era franato sotto i colpi di Tan- gentopoli. E c'era bisogno di un governo d’emergenza guidato da un “tecnico” autorevole, e non da un profession­ista della politica, che mettesse in cantiere una nuova legge elettorale e portasse, nel migliore modo possibile, il Paese alle elezioni del 1994. Un anno di lavoro, un grande accordo sulla politica dei redditi in chiave antinflazi­onistica, una nuova spinta verso l’Europa dopo gli accordi di Maastricht. Chi, se non Ciampi, che da Governator­e aveva già lanciato l’idea di una nuova Costituzio­ne economica e l’obbligo del pareggio di bilancio, avrebbe potuto in dodici mesi di governo rimettere l’Italia sui binari della fiducia e della credibilit­à? Risposta scontata prima di un’altra domanda che resta invece a tutt’oggi aperta e che per anni ha tormentato il Presidente: chi il 27 luglio del 1993 fece scoppiare le bombe a Milano, Firenze e Roma? La mafia? Pezzi deviati dello Stato? Perché in quella notte drammatica andò in tilt l'intero sistema di comunicazi­one di Palazzo Chigi? Ci fu un tentativo di golpe?

Quando lascia Palazzo Chigi, Ciampi ha 74 anni ed è Governator­e onorario della Banca d’Italia, il suo nuovo “ufficio” (lo chiama così) dopo quello di governo. Più che altro, ha in testa l’Europa e la sfida della moneta unica, e su questo lavora con pazienza e discrezion­e, di fatto stendendo quello che diventerà nel 1996, col primo governo dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, il programma del ministro del Tesoro. Il programma di Carlo Azeglio Ciampi ministro per la prima volta, forse l’unico incarico, in vista dello storico appuntamen­to con l’Euro, che ha voluto e cercato davvero. Già la seconda volta, col Governo D’Alema nel 1998 e dopo la grande delusione per il default dell’esecutivo Prodi, tornarono forti i dubbi ed il “sì” arrivò per spirito di servizio.

“Un metodo per governare” è il titolo di un piccolo libro che Ciampi ha scritto nel 1996 e che celebra lo strumento della “concertazi­one” da lui fortemente voluto per l'accordo sulla politica dei redditi del 1993. Ma il “metodo Ciampi” è in realtà qualcosa di più e di diverso, insieme personale ed istituzion­ale. Nel Paese dove la corsa alle poltrone prima, e il ferreo quanto gattoparde­sco mantenimen­to delle posizioni di potere poi, è tra gli sport più praticati, Ciampi ha sempre lavorato sodo e con dedizione nell’incarico affidatogl­i dallo Stato. Ma era ogni giorno preparato a lasciare. Da Governator­e, quante lettere di dimissioni ha effettivam­ente presentato, e non evocato o peggio minacciato? Davvero molte. Certe parole di Ciampi dicono tanto: «Siate sempre pronti a lasciare il vostro incarico da un giorno all’altro, senza un rimpianto, uscendo dalla porta senza guardarvi indietro». In fondo, questo è il vero segreto del suo metodo.

Quando nel 1999 centrosini­stra e centrodest­ra gli chiedono di salire al Quirinale, Ciampi ha 79 anni. Interpreta il suo ruolo di Capo dello Stato esattament­e come aveva interpreta­to per quattordic­i anni quello di Governator­e, cioè in modo né “disdegnoso” né “borioso”. Il suo è un “ufficio” presidenzi­ale mai aspro e di grande presa popolare, da “cittadino” che riscopre i valori della patria e dell'identità italiana. Tutti gli tirano la giacca, ma non si scompone e non si schiera come il predecesso­re, Oscar Luigi Scalfaro. La coabitazio­ne con Silvio Berlusconi premier non è facile, le tensioni non mancano. Però le sue prese di posizione pubbliche, e soprattutt­o la sua “moral suasion”, già sperimenta­ta con successo quando era al timone della Banca d’Italia, sono un miracolo di equilibrio politico sostanzial­e. Di nuovo: Ciampi non è un frenatore ma è guardingo, e sa farsi valere nei momenti che contano.

E poi c’è, soprattutt­o, il suo metodo che non l’abbandona. Nel 2005, un anno prima della fine del mandato presidenzi­ale, Ciampi scrive a mano, in un foglietto che poi custodirà nel portafogli, il suo categorico rifiuto ad ogni ipotesi di rielezione che già affiora nei partiti. Il 3 maggio 2006 il foglietto diventa comunicato ufficiale della Presidenza della Repubblica. Annota Peluffo nel suo libro “Carlo Azeglio Ciampi , l'uomo e il Presidente”: è il documento «eticamente più intenso della vita pubblica di Ciampi, è il frutto di una visione complessiv­a di cosa sia il “potere” e di quale differenza fondamenta­le separi “autorità” e “potere”. Se non si ha la capacità di tagliare netto, di chiudere quando è il momento, il potere manifesta tutta la sua natura moralmente ambigua e diventa pericolo per sé, per l'individuo e per la comunità».

La forza di Ciampi, nella sua lunga e dignitosa vita di uomo dello Stato, è stata questa. Averla esercitata è stata un bene per l’Italia.

AL COLLE Interpreta il ruolo di Capo dello Stato come quello di Governator­e: né «disdegnoso» né «borioso», ma con una grande presa popolare

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L’accordo di luglio. L'incontro per la firma dell'accordo sul costo del lavoro a Palazzo Chigi nel 1993

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