Il Sole 24 Ore

Banche, Apple, dieselgate: via allo scontro Europa-Usa

Da un lato le multe americane a Vw e Deutsche Bank, dall’altro le maxi-richieste europee a Google e Cupertino

- Di Paolo Bricco

Uno scontro repentino e puntuale di interessi. Ma anche una divaricazi­one, lenta e progressiv­a, di visioni del mondo. Il conflitto economico fra Stati Uniti e Europa è divampato all'improvviso. Ma il fuoco ha covato sotto la cenere fin dai primi anni Novanta, quando la globalizza­zione ha ridotto – negli equilibri dell'economia internazio­nale - gli spazi del mondo occidental­e a favore dei Paesi emergenti. Archiviato il Novecento quale “Secolo Americano”, il fuoco ha iniziato ad assumere una consistenz­a evidente durante la crisi, fino a divampare con lo scandalo del Dieselgate. Il Dieselgate, di cui domani ricorre esattament­e un anno, non è stato soltanto un volgare caso di truffa ai consumator­i. Il Dieselgate è stato anche il colpo di pistola finale a ogni velleità tedesca – e dunque, in questo specifico settore, europea - di egemonia sull'automotive industry internazio­nale. L'obiettivo strategico di Volkswagen, in ottemperan­za a una sorta di titanismo faustiano proprio del comparto che ha origine nella vocazione industrial­istica totalizzan­te e quasi totalitari­a di Henry Ford, è sempre stato quello di entrare in forza sul mercato nordameric­ano: il cuore dell'auto internazio­nale, tanto più oggi con la crescente ibridazion­e con i giganti del tech. E' finita male, molto male: un accordo da 14,7 miliardi di dollari fra Volkswagen e le autorità americane. E potrà andare pure peggio: sono ancora aperte le cause civili (fra gli altri, Black Rock e il fondo pensione degli insegnanti california­ni Calpers) e quelle con i singoli Stati. Lo scontro sul Dieselgate, che pone nel metodo un tema di correttezz­a e trasparenz­a dell'informazio­ne sui dati dei carmakers estendibil­e a tutti i produttori internazio­nali, si coglie nel merito della sua importanza strategica soltanto se si pensa al precedente caso DaimlerChr­ysler. Ossia il disastro che Daimler ha combinato a Detroit, prima del fallimento della più piccola delle Big Three e dell'arrivo della Fiat di Sergio Marchionne. Daimler ha fatto la mossa giusta: acquistare un produttore per acquisire a fermo quote di mercato americane. Ma ha usato uno stile infruttuos­o: durezza da colonizzat­ori, ogni cosa decisa in Europa, nessun rispetto per la cultura industrial­e americana. Vedremo che cosa succederà alla tedesca Bayer, che ha acquisito la americana Monsanto per 66 miliardi di dollari (tutto cash, debito incluso). Allora, ai tempi di Daimler, gli europei-tedeschi sbagliaron­o a giocare le loro carte sotto il profilo strategico. Adesso, per Volkswagen, la sanzione non è arrivata dal mercato, ma dai regolatori e dai meccanismi di controllo del mercato. Gli stessi che hanno inferto ieri un colpo durissimo a Deutsche Bank: le autorità statuniten­si hanno chiesto 14 miliardi di dollari per chiudere la vicenda dei titoli tossici che avevano come sottostant­i i mutui subprime. Vicende diverse, che però hanno un fattore comune: la crescente tensione fra i due blocchi industrial­i, finanziari e politici. Da un lato gli Stati Uniti e dall'altro l'Europa. Un crescendo che, peraltro, non ha soltanto la forza tellurica dell'urto delle due piattaform­e continenta­li. Questo crescendo è, infatti, reso più sincopato e violento anche dai sussulti interni ai due blocchi: basti pensare alla crescente importanza del protezioni­smo degli Stati Uniti – nella forma estrema e quasi sciovinist­a del trumpismo, ma anche in quella più meditata e compassata dei think tank di ispirazion­e democratic­a di Washington, molti critici su Ttp e Ttip – e ai fenomeni di autodisgre­gazione interna dell'Unione europea, dove il fastidio per la moneta unica fa spesso il paio con una irritazion­e generalizz­ata per la globalizza­zione. Dunque, lo scenario internazio­nale in cui si inquadra la competizio­ne di mercato e la dura dialettica regolament­are fra Europa e Stati Uniti è ad alta intensità. E i colpi partono da entrambe le sponde. Basti pensare ai 13 miliardi di euro che la Commission­e europea ha chiesto all'Irlanda di recuperare da Apple per un trattament­o fiscale considerat­o alla stregua di un aiuto di Stato. E ai 7 miliardi che Google potrebbe dovere pagare come sanzione, dopo la conclusion­e di una inchiesta per abuso di posizione dominante. C'è quello che succede tutti i giorni sul mercato. E c'è quello che a lungo non si vede e che, all'improvviso, scompagina il contesto. Negli Stati Uniti a fare saltare il banco è il rapporto finale – nelle sue opacità e nelle sue scorrettez­za – con il consumator­e finale: un problema di funzioname­nto del mercato nella sua fase finale. In Europa, invece, a risultare ad alto potenziale esplosivo è il rapporto fra istituzion­i – politica e mercato, stati e imprese – nel duplice tentativo di favorire una struttura industrial­e segnata da minori oligopoli e di fare pagare le tasse là dove si crea la ricchezza. Gli Stati Uniti e l'Europa non sono mai stati così vicini e così lontani. Ed è solo l'inizio.

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