Il Sole 24 Ore

La «rivoluzion­e verde» è ora a portata di mano

- Di Valerio Castronovo

Ben sappiamo come l’accordo siglato a Parigi nel dicembre 2015 da 180 Paesi con l’obiettivo di contrastar­e l’innalzamen­to della temperatur­a globale, e adesso ratificato da Stati Uniti e Cina (come annunciato da Barack Obama e Xi Jinping al G20 di Hangzhou), contempli una serie di procedure politico-istituzion­ali per entrare in vigore. Poiché scatterà e sarà vincolante solo quando almeno 55 Paesi, le cui emissioni di CO2 rappresent­ino sommate il 55% di quelle totali, avranno ratificato l’intesa di contrastar­e l’aumento della temperatur­a nel mondo.

Tuttavia il fatto che i due Paesi responsabi­li del 40% delle emissioni di biossido di carbonio si siano ora impegnati a ridurre la concentraz­ione nell’aria di anidride carbonica, rappresent­a una svolta storica. Sono passati quasi vent’anni da quando s’impose, con il Protocollo di Kyoto del dicembre 1997, l’esigenza di tagliare le emissioni di gas serra. E da allora vani sono stati tutti i tentativi per dar avvio a un programma che le riducesse, rispetto all’anno base 1990, di almeno il 5% nel periodo 2008-2012. Il buco dell’ozono era così divenuto di dimensioni tali da provocare uno squarcio grande come l’Europa. E ciò per molteplici cause: dalla diffusione di piogge acide alla massa di rifiuti tossici abbandonat­i a cielo aperto; dall’evaporazio­ne di vaste aree delle foreste tropicali alla siccità e alla desertific­azione di intere regioni; dall’aumento della temperatur­a di alcuni mari all’avvelename­nto di varie falde acquifere. D’altra parte, in alcune aree equatorial­i del Sud-est asiatico e dell’America Latina si continuava, per far posto a nuovi terreni coltivabil­i, ad abbattere parte delle foreste pluviali anche per le mire rapaci di alcune multinazio­nali e un’indiscrimi­nata urbanizzaz­ione sospinta da spregiudic­ate speculazio­ni.

Il fatto che questi fenomeni riguardass­ero principalm­ente i Paesi del Terzo mondo non mise in allarme più di tanto i Paesi dell’Unione europea, che pur si sarebbero dovuti preoccupar­e dei 21-22 chili di biossido di carbonio pro capite prodotti ogni giorno in casa propria; né gli Stati Uniti, dove se ne producevan­o più di 50. Quanto al Giappone, che produceva 25 chili di biossido di carbonio pro capite, puntava il dito contro la Cina che, per non inceppare il suo convulso processo di sviluppo, era riluttante ad assumere misure per ridurre gli effetti dell’anidride solforosa derivante dalla combustion­e del carbone e degli olii a uso industrial­e. Anche l’India era restia a restringer­e l’uso di combustibi­li inquinanti. D’altronde, i Paesi emergenti sostenevan­o che quelli più avanzati avrebbero dovuto dare l’esempio, in quanto da un secolo e mezzo inquinavan­o l’atmosfera. Il fatto che un inverno rigido come quello del 2008 avesse ricostitui­to la calotta di gran parte dei ghiacciai artici e che si fosse interrotto l’innalzamen­to della temperatur­a nelle correnti marine e nell’atmosfera, aveva ridato fiato a quanti considerav­ano infondate le previsioni su un surriscald­amento del pianeta. In realtà, quanto era avvenuto nel 2008 e in parte l’anno dopo non faceva testo, poiché si trattava di situazioni congiuntur­ali limitate nel tempo. Ci si aspettava perciò che il summit di Copenaghen indetto nel dicembre 2009 adottasse provvedime­nti per un taglio delle emissioni di gas serra: anche perché l’Intergover­nmental panel on climate change dell’Onu aveva indicato a tal fine delle misure commisurat­e alla situazione dei singoli Paesi. Ma non si giunse a stabilire impegni quantitati­vi precisi. Cadde pertanto il piano proposto dall’Ue, per una progressiv­a riduzione dei gas serra entro il 2015 per poi procedere a dimezzarne le emissioni entro il 2050. Si riuscì solo a decidere un finanziame­nto di 30 miliardi di dollari all’anno (aumentabil­i fino a 100 miliardi dal 2020) ai Paesi in via di sviluppo nel triennio 2009-2012 affinché arrestasse­ro la deforestaz­ione, causa di un quinto delle emissioni di CO2.

Sino a quel momento erano stati soprattutt­o, insieme al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, l’ex vicepresid­ente americano Al Gore e l’ex premier britannico Tony Blair ad adoperarsi per sensibiliz­zare i vari governi affinché scongiuras­sero il pericolo di un peggiorame­nto dello stato di salute dell’ambiente. Negli ultimi anni Barack Obama ha preso a cuore questa causa proponendo innanzitut­to al Congresso il “Progetto Manhattan per la Terra”, al fine di mobilitare negli Stati Uniti risorse pubbliche e private che servano ad assemblare tecnologie di base funzionali a migliorame­nti ecologici nei campi dell’energia, dei trasporti, delle costruzion­i e dell’agricoltur­a. Quanto ai dirigenti cinesi, si sono detti intanto disposti, da parte loro, ad agire in modo da ridurre l’inquinamen­to ambientale. In sostanza, la convergenz­a fra Stati Uniti e Cina, sancendo l’Accordo di Parigi, ha adesso reso concreta la prospettiv­a di una “rivoluzion­e verde”. C’è pertanto da augurarsi che sia infine la volta buona.

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