Il bene comune nell’ascolto dell’altro
Ascoltare è un’arte e anche una scelta e in quanto tale va vissuta e rinnovata
Che ci fanno quattro adulti, rappresentanti di altrettante istituzioni, con mille ragazzi in rappresentanza di almeno 300mila loro coetanei? Fanno esercizio di ascolto. Sono lì a dire a quei ragazzi: «Il vostro parere ci interessa; i vostri sogni vogliamo sostenerli; dai vostri progetti vogliamo provare a ripartire».
Qualche giorno fa sono stato “invitato ad ascoltare”. Accettando l’invito e partecipando all’evento, mi sono rafforzato nella convinzione che ascoltare è un’arte ed è una scelta. E, in quanto tale, va appresa, vissuta e rinnovata; molte volte, davanti a chiunque e dinanzi a qualsiasi evento. L’ascolto come arte e come scelta nasce dalla fiducia. Se accettiamo di mettere per un attimo da parte l’efficienza, la resa, l’opportunità, il calcolo, che spesso sono i criteri esclusivi in base ai quali costruiamo le relazioni, troveremo un’altra strada. È la strada del credere alla bontà di chi ho davanti: alle sue potenzialità di bene, alla sua creatività, alla sua originale modalità di leggere la realtà e di sognarne i cambiamenti possibili. Solo da questa fiducia può nascere l’ascolto, l’arte di accogliere l’altro con tutta la ricchezza di idee di cui è portatore. Certo: la fiducia è un rischio. Forse è il rischio. Ma senza questo ingrediente fondamentale, quale sapore avrebbero i nostri rapporti? È immaginabile una vita fatta solo di calcolo e/o di paura? Purtroppo non solo è immaginabile! È la forma di vita più diffusa, tanto che ascoltando i progetti e le proposte dei ragazzi incontrati nell’Aula Paolo VI in Vaticano, la prima (… benevola) reazione sarebbe potuto essere quella di chiuderla col classico: «... So’ ragazzi!». Invece, l’iniziativa promossa dall’Azione Cattolica dei Ragazzi, il modo di prepararla lungo un intero anno coinvolgendo educatori, ragazzi e adolescenti ha provocato in me e negli altri (rappresentanti delle amministrazioni locali e del governo centrale, oltre al presi- dente nazionale dell’Azione Cattolica) una reazione di tutt’altro segno. I ragazzi - protagonisti con le loro idee, i loro sogni e le loro intuizioni – hanno visibilmente catturato la nostra attenzione provocandoci all’ascolto.
Già 1500 anni fa, Benedetto da Norcia annotava nella sua Regola, a proposito delle scelte da prendere: «Spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore» (Regola, c. 3). Ascoltare, dicevo, è un’arte, una scelta e può rivelarsi pure una sorpresa, quando ti raggiungono idee semplici, spontanee, sincere e decise. I ragazzi che abbiamo incontrato come istituzioni hanno sintetizzato e presentato i loro punti di vista e i loro progetti relativi a tre grandi temi della vita sociale ed ecclesiale: la famiglia, la salvaguardia del creato, la partecipazione. Si erano preparati, nei mesi precedenti, attraverso un percorso di consultazione con i loro gruppi, anche a partire dai testi che Papa Francesco sta offrendo alla riflessione e all’azione di tutta la Chiesa: Evangelii Gaudium, Laudato si’, Amoris Laetitia. Hanno parlato con la semplicità e l’immediatezza che contraddistinguono il loro linguaggio. Lo hanno fatto con l’emozione e l’impegno di chi si sente riconosciuto e responsabilizzato. «È proprio vero - mi dicevo ascoltandoli – dare fiducia a qualcuno può mettere in moto energie positive a beneficio di tutti». Ho capito che alla base delle loro proposte c’era la scelta di curare le relazioni rispetto al possesso o all’accumulo delle cose. Immaginando soluzioni non teoriche e forse non così irrealizzabili.
Nella casa descritta dai ragazzi, per esempio, hanno trovato posto soprattutto le persone, più dei giochi: i genitori, i fratelli (numerosi, in un Paese in crisi di natalità), gli amici di tante provenienze diverse. Ha trovato spazio Dio, come presenza abituale nei luoghi della vita quotidiana. E ha trovato spazio persino il cane. La casa progettata dai bambini non era senza adulti; forse non potremmo dire lo stessa cosa invertendo i sog- getti in questione. Non era senza adulti perché i ragazzi non dimenticano il valore dell’accompagnamento delle persone. Nelle loro proposte non ho trovato atteggiamenti di rivendicazione, ma proposte; quelle che «non miravano ad occupare spazi, ma ad innescare processi» (cf. Evangelii Gaudium, 223). E, come ho cercato di dire loro, le proposte hanno bisogno del contributo di tutti per diventare realtà. Nel rispetto e nella complementarietà dei ruoli e delle competenze. Solo in un percorso di collaborazione e di sussidiarietà (forse sono questi gli altri nomi dell’ascolto) si può arrivare a realizzare qualcosa di buono per tutti.
Le strade della città pensata dai ragazzi erano sufficientemente larghe per far tran- sitare tranquillamente sia le auto che le biciclette; la raccolta differenziata era una pratica normale; il rispetto degli spazi pubblici un imperativo. Hanno costruito senza distruggere, questi ragazzi. E a noi adulti hanno chiesto di dar loro una mano. Parlando con due dei responsabili della interessante iniziativa, don Marco e Teresa, mi è stato detto che i ragazzi sono ripartiti con una maggiore consapevolezza del protagonismo che sono chiamati a vivere. Hanno assunto ciò che Papa Francesco scrive in Evangelii Gaudium 273: «La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo». Insomma: una questione di identità e non solo di ruolo. Il Papa poi mette in guardia da un rischio, affermando: «Se uno divide da una parte il suo dovere e dall’altra la propria vita privata, tutto diventa grigio e andrà continuamente cercando riconoscimenti o difendendo le proprie esigenze. Smetterà di essere popolo». Personalmente mi sono rafforzato in una convinzione che talvolta faccio fatica io stesso a tradurre in pratica: l’arte dell’ascolto nasce dalla consapevolezza che la mia vita è legata indissolubilmente alla vita degli altri. Non però in termini di ricerca di compromessi, ma nella certezza di appartenere a un unico, comune destino: la storia dell’altro è anche la mia storia e il suo bene non mi è estraneo. È per questo, secondo Papa Francesco, che non posso “balconear”; non posso cioè stare a guardare ciò che fanno gli altri; devo assumermi la responsabilità del bene comune. Cominciando da quello che si sentì dire quel giornalista che, intervistando Madre Teresa di Calcutta e chiedendole da dove fosse necessario partire per migliorare le cose, si sentì rispondere: «È semplicissimo: da me e da lei».
CAMBIO DI PARADIGMA Se accettiamo di mettere da parte l’opportunità e il calcolo, che spesso sono i criteri esclusivi in base ai quali costruiamo le relazioni, allora riusciremo a trovare un’altra strada