La settimana
I listini europei sempre nervosi. Il rendimento del bund resta in territorio positivo
Occhi ancora puntati sulla Fed
È difficile che la banca centrale americana guasterà la festa agli investitori con un fastidioso rialzo dei tassi di interesse il 21 settembre, come dimostrano le probabilità implicite nei derivati, che sono solo del 12%; tuttavia, l’approssimarsi della riunione della Federal Reserve sparge sui parterre un velo di inquietudine. Infatti, nonostante i segnali di rallentamento della crescita statunitense, che rendono più plausibile il perdurare di una politica monetaria morbida, gli indici di New York hanno alternato sedute positive a crolli decisi; pure i titoli di Stato di Washington sono scesi, soprattutto sulle lunghe scadenze a dir la verità, con i rendimenti speculari alle quotazioni in aumento, come se dovessero adeguarsi a prospettive di tassi più elevati (i titoli a due anni, invece, non scontano inasprimenti). In Europa il nervosismo si è tradotto in una serie di cali delle 600 azioni dello Stoxx, accentuati dalla speculazione al ribasso sui bancari, che ha zavorrato Piazza Affari. Pure le obbligazioni governative dell’Eurozona hanno seguito le orme dei Treasury Usa, con i rendimenti in rialzo a dispetto del sostegno degli acquisti della Banca Centrale Europea, che non ha ampliato gli stimoli la scorsa settimana, ma è probabile che lo faccia tra qualche mese. L’effetto Treasury è stato evidente sul rendimento del Bund decennale tedesco, che è tornato in positivo dopo il panico della Brexit e ha oscillato tra poco sopra lo zero (0,002%) e lo 0,075%.
Però giovedì (giorno di chiusura di Plus24), gli operatori d’Oltreoceano sono partiti con ottimismo e hanno ridato fiato ai parterre del Vecchio Continente, che hanno ridotto le perdite sul venerdì precedente (-1,5% lo Stoxx600, -3,1% il Ftse All share di Milano, -2,6% il Cac40 di Parigi, -1,4% Francoforte, -0,7% Londra).
Forse le vendite al dettaglio americane, in flessione dello 0,3% ad agosto, hanno contribuito ad alleviare le preoccupazioni per l’indesiderata stretta monetaria, in quanto indizio di una crescita zoppicante. Viceversa, il miglioramento dell’indice di fiducia della Fed di Philadelphia ai massimi dal febbraio 2015 – tonico più nella componente dei prezzi che in quella del lavoro o degli ordini – non ha scalfito la propensione al rischio.