La diagnosi corretta e l’apatia dell’Europa
Il governo italiano è arrivato al consiglio Ue di Bratislava con un’agenda che era diversa da quella degli altri paesi e, come spesso succede in questi casi, ne è uscito isolato. La bassa crescita dell’economia europea non è considerata un problema comune da molti altri governi e nemmeno dalla maggioranza dei cittadini europei. Forse si sbagliano tutti – anzi è quasi certo che sia così – ma nei grafici dei sondaggi europei, discussi prima del Consiglio nei negoziati preparatori, si vede come i problemi dell’economia siano in basso nella lista delle preoccupazioni dei cittadini che è invece dominata dal tema dell’immigrazione. Il governo italiano d’altronde arrivava al vertice sulla scia degli ultimi dati dell’economia ben poco incoraggianti. I partner dovrebbero anch’essi preoccuparsi di un rallentamento che l’anno prossimo può avere ripercussioni sul rapporto tra debito e pil italiano e quindi sulla stabilità dell’euro-area, ma resta il fatto che l’Italia (come il Portogallo) è vista come un caso speciale di bassa crescita strutturale al quale è stata già offerta solidarietà attraverso gli interventi della Bce, senza i quali l’economia italiana starebbe vivendo il sesto anno di fila di recessione. Ha certamente ragione il governo italiano a denunciare una grave sottovalutazione strategica dei problemi africani, ma quello che non poteva funzionare dal punto di vista negoziale è che ogni giusto problema sollevato dai negoziatori italiani sembri avere sempre la stessa sospetta soluzione: toglierne i relativi costi dal calcolo del patto di stabilità in modo da lasciare “spazio” all’azione fiscale di un governo che si trova sotto la pressione degli appuntamenti politici. Togliere dai calcoli sul debito eccessivo o sulla “deviazione significativa dagli obiettivi di medio termine” del bilancio italiano i costi per far fronte all’immigrazione, per le spese della difesa militare, per le operazioni di sicurezza interne ed esterne, per l’edilizia scolastica e infine per la prevenzione delle catastrofi naturali, riduce tutte queste giuste azioni politiche a occasioni di indisciplina fiscale. Togliere le spese “buone” dal 3% apre spazio proprio alle altre spese “meno buone”, aumentando il debito pubblico e sollevando la diffidenza dei partner.