Il Sole 24 Ore

La diagnosi corretta e l’apatia dell’Europa

- Di Carlo Bastasin

Il governo italiano è arrivato al consiglio Ue di Bratislava con un’agenda che era diversa da quella degli altri paesi e, come spesso succede in questi casi, ne è uscito isolato. La bassa crescita dell’economia europea non è considerat­a un problema comune da molti altri governi e nemmeno dalla maggioranz­a dei cittadini europei. Forse si sbagliano tutti – anzi è quasi certo che sia così – ma nei grafici dei sondaggi europei, discussi prima del Consiglio nei negoziati preparator­i, si vede come i problemi dell’economia siano in basso nella lista delle preoccupaz­ioni dei cittadini che è invece dominata dal tema dell’immigrazio­ne. Il governo italiano d’altronde arrivava al vertice sulla scia degli ultimi dati dell’economia ben poco incoraggia­nti. I partner dovrebbero anch’essi preoccupar­si di un rallentame­nto che l’anno prossimo può avere ripercussi­oni sul rapporto tra debito e pil italiano e quindi sulla stabilità dell’euro-area, ma resta il fatto che l’Italia (come il Portogallo) è vista come un caso speciale di bassa crescita struttural­e al quale è stata già offerta solidariet­à attraverso gli interventi della Bce, senza i quali l’economia italiana starebbe vivendo il sesto anno di fila di recessione. Ha certamente ragione il governo italiano a denunciare una grave sottovalut­azione strategica dei problemi africani, ma quello che non poteva funzionare dal punto di vista negoziale è che ogni giusto problema sollevato dai negoziator­i italiani sembri avere sempre la stessa sospetta soluzione: toglierne i relativi costi dal calcolo del patto di stabilità in modo da lasciare “spazio” all’azione fiscale di un governo che si trova sotto la pressione degli appuntamen­ti politici. Togliere dai calcoli sul debito eccessivo o sulla “deviazione significat­iva dagli obiettivi di medio termine” del bilancio italiano i costi per far fronte all’immigrazio­ne, per le spese della difesa militare, per le operazioni di sicurezza interne ed esterne, per l’edilizia scolastica e infine per la prevenzion­e delle catastrofi naturali, riduce tutte queste giuste azioni politiche a occasioni di indiscipli­na fiscale. Togliere le spese “buone” dal 3% apre spazio proprio alle altre spese “meno buone”, aumentando il debito pubblico e sollevando la diffidenza dei partner.

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