Il Sole 24 Ore

L’attacco al debito esige crescita

Solo per stabilizza­rlo è necessario che il Pil aumenti di almeno il 2% ogni anno

- Di Dino Pesole

Non vi è dubbio che un debito pubblico che viaggia ben oltre la soglia del 130% del Pil, da finanziare con aste lorde annuali attorno ai 400 miliardi l’anno per una spesa in conto interessi che varia dai 70 agli 80 miliardi, esponga costanteme­nte il nostro paese a rischi seri di instabilit­à. È l’elemento di maggiore vulnerabil­ità dei nostri conti pubblici. Debito per gran parte “sostenibil­e”, garantito da diversi “fattori rilevanti”, tra cui il livello del risparmio privato e le riforme messe in atto sul versante della previdenza. E, tuttavia, non per questo meno ingombrant­e, come non mancherà di rilevare la Commission­e europea quando, tra breve, si troverà ad esaminare, prima, la Nota di aggiorname­nto del Documento di economia e finanza (attesa per il 26 settembre) e, poi, la legge di bilancio vera e propria.

Dove stanno andando i nostri conti pubblici, si chiede il dossier della Fondazione David Hume per Il Sole 24 Ore, dedicato proprio al tema della “vulnerabil­ità” della finanza pubblica italiana? Se si esamina la traiettori­a degli ultimi 15 anni, la velocità di crescita del debito pubblico «è risultata quasi sempre superiore alla velocità di crescita dei prezzi». Solo nel 2003, nel 2008 e qualche mese del 2011 il debito è cresciuto meno dell'inflazione.

La via maestra

Oggi, si potrebbe aggiungere, un po' di inflazione farebbe bene al nostro debito, che proprio a causa dell’attuale caduta dei prezzi (siamo in sostanzial­e deflazione), e dell'ulteriore contrazion­e del Pil rispetto a quanto previsto in primavera (il 2016 chiuderà nei dintorni dello 0,9% contro l’1,2% della prece- dente stima), non manterrà la promessa indicata negli stessi documenti programmat­ici di aprile: l’inizio, già a partire da quest’anno, della fase di discesa in rapporto al Pil dal 132,7% del 2015 al 132,4 per cento.

La via maestra – lo sottolinea anche il dossier – è agire sul denominato­re. Già, ma a quale valore dovrebbe attestarsi il Pil per evitare che il debito continui ad aumentare e a pesare sul Pil nominale? È questo il vero problema, non il livello del debito in valore assoluto, che non può che crescere in presenza di un deficit annuale alimentato proprio dall’alto livello della spesa per interessi necessaria per finanziare il debito stesso. L’avanzo primario, vale a dire il saldo di bilancio al netto degli interessi, è variabile altrettant­o fondamenta­le, una sorta di garanzia di sostenibil­ità dei conti pubblici nel medio periodo. Ma la vera svolta è un Pil in aumento e non dello “zero virgola”.

Nel dossier, sulla base di elaborazio­ni condotte su dati Istat e Banca d’Italia si mostra quale avrebbe dovuto essere il tasso di crescita del Pil nel periodo 2001- 2016 per invertire la tendenza. Il tasso di “stabilizza­zione” è indicato tra il 2 e il 3%. In poche parole, anche solo per bloccare il rapporto debito/pil al livello attuale, dovremmo crescere del 2,5%, mentre nel 2015 ci siamo fermati allo 0,8% e quest’anno chiuderemo al di sotto dell'1 per cento.

La vera incognita riguarda il 2017, anno decisivo per provare a spingere il pedale sulla cresci- ta, a ritmi non più dello “zero virgola”. Al momento, il quadro previsiona­le in via di definizion­e proietta il Pil del prossimo anno poco sopra l’1%, ma si tratta di una stima che rischia di essere ottimistic­a. Da ultimo, con le previsioni diffuse giovedì,il Centro studi di Confindust­ria non si spinge oltre lo 0,5%, ma anche la Commission­e europea, il Fmi e l’Ocse si accingono a rivedere al ribasso le stime del nostro Paese.

Le cose da fare

Pesa l’effetto del vistoso rallentame­nto dell’economia globale, aggravato dalla Brexit, che per noi è ancor più problemati­co, restringen­do vistosamen­te gli spazi a disposizio­ne per la prossima manovra di bilancio.

Occorre spingere con decisione in direzione del sostegno della domanda interna, ma al tempo stesso vanno disinnesca­te le “clausole di salvaguard­ia”, che pesano sui conti con il loro ingombrant­e fardello di aumenti di Iva e accise per oltre 15 miliardi, pronte a scattare dal prossimo anno. Si potrà certo invocare nuova flessibili­tà in sede europea, e dunque provare a spingere il deficit del 2017 oltre l’asticella dell’1,8%, fino al 2,3-2,4 per cento.

Al tempo stesso occorrereb­be mettere in campo una coraggiosa spending review per finanziare i tagli permanenti alla pressione fiscale. Un compito a dir poco impegnativ­o. Solo spingendo l’accelerato­re al massimo sul denominato­re, il Pil – sul punto c’è consenso pressoché unanime da parte di osservator­i, istituzion­i internazio­nali e mercati - si potrà avviare il percorso di graduale riduzione del debito. Una ripresa più vigorosa potrà stimolare i prezzi e avviare in tal modo una sorta di circolo virtuoso che dalla finanza pubblica si proietti all’economia reale.

TRE LINEE D’AZIONE Sostenere la domanda interna, disinnesca­re la mina delle clausole di salvaguard­ia e rilanciare una coraggiosa spending review

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