Se il dialogo fa bene anche all’economia
La conversazione è necessaria agli uomini ma è anche fonte di piacere, di notevoli benefici, sintomo di civiltà. Non va confusa con il semplice scambio di frasi scontate, quel genere che si consuma in certi uffici e nei salotti televisivi o tra i pettegoli e i maldicenti: insieme di parole e locuzioni che oscilla tra quel che è chiamato gossip e la perdita di tempo. Più semplicemente si può dire che la conversazione rivela la presenza di spirito e intelligenza. Non a caso, già nel Settecento, Samuel Johnson in “The Rambler” asseriva: “Tante chiacchiere, ma nessuna conversazione”.
Il dialogo, figlio del conversare, fu considerato da Platone il mezzo più adatto per esprimere la filosofia e la letteratura di ogni tempo è gremita di opere nate da discorsi tenuti a tavola o nei momenti ricreativi. Tuttavia, da qualche anno il genere, considerato retaggio del passato, perde peso specifico. La conversazione, con il relativo guardarsi direttamente, sono pratiche accantonate dai ritmi che stanno modificando vita e abitudini. Lo asserisce Sherry Turkle, formatasi ad Harvard, nel suo acuto saggio “La conversazione necessaria” (tradotto da Einaudi, pp. 452, euro 26), libro nato da decenni di studi condotti al Mit di Boston.
Si tratta di un’opera dedicata alle relazioni tra psicologia umana e tecnologia, e per questa sociologa di punta la nostra epoca è quella che ha organizzato “la fuga dalla conversazione”. Per dirla con una battuta, siamo connessi ma soli. E questo anche se l’intraprendere dell’età moderna ha vissuto di conversazioni e l’economia necessita ancora oggi di dialoghi continui, che mai si sono interrotti dai tempi in cui nacque la cambiale, nel lontano medioevo. La politica poi, che fa abuso di parole, si basa comunque e ancora sul dialogo e sulla possibile intesa tra i cittadini e il Palazzo.
Turkle ci fa notare meglio quello che tutti stiamo facendo magari senza accorgercene: parliamo con un amico e, nel frattempo, diamo occhiate allo smartphone; poniamo una questione al vicino e non stacchiamo gli occhi dallo schermo che abbiamo davanti e che contiene il nostro lavoro e anche dei possibili svaghi eccetera. Viviamo costantemente, per dirla con questa studiosa, in un altrove digitale. La conversazione, magari alimentata da pause o gesti che scortano le parole, assomiglia sempre più a un rito arcaico. Non meravigliamoci se qualcuno dirà che è una faccenda per nonni.
Eppure, nota con insistenza Turkle, per capire chi siamo, per comprendere il mondo che ci ospita, per crescere o per declinare semplicemente il verbo amore nelle forme attive e passive, la conversazione è necessaria. Non è un bene di lusso. Se si perde la capacità di parlare “faccia a faccia” con gli altri si corre il rischio di ridurre drasticamente sia la riflessione sia le capacità di concentrazione, dando vita a nuove forme di solitudine in un mondo affollato di comunicazioni. L’economia, nota ancora la sociologa, non può fare a meno del dialogo. Altrimenti si riduce a una sorta di effimera impresa, molto vicina alle pratiche che di solito si chiamano speculazione.
Le riflessioni che stiamo riportando sono nate dopo anni di interviste e di indagini sul campo; soprattutto esaminano attentamente alcuni aspetti dell’attività umana. Un esempio? Il telelavoro. Si era creduto un decennio e qualche anno fa che non era più necessario essere fisicamente insieme in un determinato spazio per svolgere una certa attività. Lo schermo, con i relativi collegamenti, poteva supplire benissimo. E ognuno se ne stava a casa senza occupare una scrivania che ha pur sempre un costo. Bene: la Turkle segnala casi in cui i dipendenti sono stati portati “da casa al posto di lavoro”. Non per qualche bizzarria, ma per convenienza. Si scopre allora (pagina 320 della traduzione italiana) che nel 2004 il nuovo amministratore delegato della Radnor Partners, grande società di consulenza ad alta tecnologia, dopo aver notato le frustrazioni e i limiti del telelavoro - attivo in questa società dagli anni Novanta del secolo scorso - decise di invertire la tendenza. I costi furono diversi ma, dopo le inevitabili lamentele nate per il cambio di abitudini, si scoprì che la rendita migliorava. La Turkle sottolinea il fatto che anche gli studi di Ben Waber , guru per l’informatica e i servizi, «dimostrano che i lavoratori dei settori più diversi sono più produttivi quando parlano di più».
Concludendo: conversare conviene. All’anima, all’educazione, ai sentimenti e all’amore in particolare, alla vita stessa. E anche all’economia.