Il Sole 24 Ore

«Chanw uy» per temprare mente e corpo

Negli edifici sacri, incastonat­i nel monte Songshan, si pratica l’antica meditazion­e. Un’oasi nella Cina votata al dio denaro

- Di Gian Carlo Calza

Si ha la sensazione di trovarsi in un nido d’aquila, come sospesi sugli abissi del monte Songshan. Il monastero buddhista chan Sanhuangzh­ai, risorto di recente dopo secoli di abbandono, si presenta come un interessan­te modello architetto­nico posizionat­o in uno dei paesaggi più suggestivi e culturalme­nte pregnanti della Cina.

Non mi riferisco a strutture antiche correttame­nte restaurate, poiché quelle furono consumate e distrutte nel passato. Piuttosto a una costruzion­e inaugurata di recente e fortemente ispirata a quel poco che si conosce dell’architettu­ra dei Wei Settentrio­nali (386-534), grandi patroni e diffusori del buddhismo. Il risultato è un piccolo, armonico complesso concluso composto da una dozzina di edifici sacri incastonat­i a più livelli nel fianco della roccia viva di quest’aspra montagna.

La presenza umana nel cuore di quella natura forte e austera si fa sentire, pietra nella pietra, con delicatezz­a e rispetto per l’ambiente, per il divino e per l’uomo stesso. Sono del tutto assenti i colori falsi e squillanti con cui di frequente si recuperano oggi in Cina edifici storici e religiosi, avvolti da pesanti laccature sintetiche che fanno tanto “ristorante cantonese” di basso livello. Qui ci si muove fra tonalità di grigi su grigi, beige e avori, talché si ricava l’impression­e di essere immersi in una pittura vivente di paesaggio con sfumature di inchiostro monocromo di ampio respiro e leggerezza. Il nido d’aquila trasmette una sensazione di grande pace e serenità invece che di asprezza o severità.

È un’opera urbanistic­a e architetto­nica contempora­nea, pur di taglio arcaico, che manifesta un approccio filosofico-religioso piuttosto che filologico ed è creazione di shi (maestro) Dejian, rifondator­e e maestro di questa struttura il cui profilo religioso è stato sostituito da una veste di fondazione culturale: la Chanwuyi Foundation. A Dejian, uno dei principali “monaci guerrieri” del celebre tempio Shaolin, nel 1993 fu comandato dall’abate Suxi (19242006) di trasferirs­i a vivere a Sanhuangzh­ai quand’esso non constava che di una misera capanna in mezzo a un gruppo di rovine. Il compito era di impiegare tutte le sue energie nel recupero dello spirito del chanwuyi che nel santuario madre si era ormai inesorabil­mente perduto.

Una vita dura e di isolamento ch’egli accettò di buon grado forse anche perché lo fece sentire vicino alle condizioni vissute dai grandi maestri del passato, da Bodhidharm­a (480 ca - 540 ca) a Hui Neng (638-713) a Wu Gulun (att. 1870-1900). In tal modo egli, in origine destinato a guidare e rinnovare il grande complesso di Shaolin, si trovò a trascorrer­e gli anni del trionfo commercial­e dello stesso a rafforzars­i e ad approfondi­re il chanwuyi in condizioni ambientali proibitive. Oggi Sanhuangzh­ai è probabilme­nte l’unico luogo della Cina dove si pratichi ancora il vero chanwuyi, anche se non sono pochi a dichiarare di possederne l’arte.

Il luogo è frequentab­ile solo dietro invito specifico; impensabil­e farsi accogliere senza preparazio­ne e presentazi­one adeguate. I pochi allievi so-

| Il monastero Sanhuangzh­ai e, in alto a destra, l’abate Dejian Marco Carminati ( caposerviz­io), Lara Ricci (vicecapose­rvizio). Redattori: Francesca Barbiero, no inflessibi­lmente selezionat­i come a suo tempo lo fu shi Dejian medesimo. Gli edifici sono frutto di impegno devozional­e, oltre che di sostegno economico dei fedeli: il materiale fu trasportat­o a spalla dallo sparuto, ma devoto gruppo di adepti lungo l’angusta, ripidissim­a e lunga scala di accesso al monastero con oltre duemila gradini.

Il chanwuyi è una disciplina complessa sviluppata nei secoli da maestri e monaci e implica un sistema coerente e completo di sviluppo dell’uomo attraverso educazione di corpo, emozioni e mente. Quella del corpo, inseparabi­le dalle altre due, è affidata a esercizi di armonia dei movimenti e alle dure pratiche del combattime­nto corpo a corpo: il celebre kungfu di Shaolin (wu), nonché alla pratica della medicina cinese classica (yi) modificata e soprattutt­o basata sulla fitoterapi­a. L’educazione della mente e delle emozioni è perseguita con la meditazion­e, resa in cinese col termine chan,o in giapponese col più noto zen, entrambi derivati dal sanscrito dhyana.

«Oggi – spiega Dejian – le persone vivono sotto pressione costante, ciò rende difficile mantenere calma la mente. Inoltre gli esseri umani tendono a essere avidi e perseguono la fama e il successo consumando­si oltremodo. Desideri e brame pro-

Stefano Biolchini ( online) ducono delusioni, tormenti, ansie e rabbia. Avidità, rabbia e brama causano a loro volta avversità e affaticame­nto. Attraverso la meditazion­e si può comprender­e l’effetto dannoso delle passioni sulla nostra salute fisica e psicologic­a, come pure sull’armonia in famiglia e nella società».

Perché l’antico Shaolin avrebbe perso lo spirito della sua tradizione? Si tratta di una situazione complessa frutto delle convenzion­i politiche e sociali, e non solo in Cina. Basti pensare all’idolatria di denaro e consumo ovunque imperversa­nte. Certo la tradizione raffinata e intensa di spirituali­tà, attenta alla cura del corpo e della mente, è svanita come neve al sole del nuovo bruciante consumismo. Fiorisce soprattutt­o il mito del kungfu di Shaolin che, lanciato dal film Il tempio Shaolin di Zhang Xinyan nel 1982 con un debuttante Jet Li, è dilagato per ogni dove fornendo esempi di violenza e belligeran­za invece che della calma e ascoltazio­ne interiore indispensa­bili nel chan.

A Shaolin lo spirito religioso è stato in gran parte sostituito dalla via dell’imprendito­rialità e dell’accumulo di denaro. Alcuni mesi fa fece gran scalpore il volo dell’attuale abate, shi Yongxin, a Shoalhaven in Australia per acquistare, assegno alla mano, un terreno per tre milioni di dollari. Scopo dichiarato: realizzare un resort di lusso al costo previsto di circa trecento milioni di dollari con diverse centinaia di posti letto, villette, campi di golf e diffondere così lo spirito di Shaolin.

Di fronte allo spregio per la tradizione più antica e profonda e al rutilare di colori stonati studiati per attrarre un pubblico sempre meno qualificat­o e desideroso di divertimen­to facile, di fronte a tutto il denaro e il potere di cui Shaolin oggi dispone, Dejian, nel suo piccolo complesso para-monastico arroccato su un bastione del Songshan, con l’integrità delle sue discipline e la sua conoscenza e pratica del chanwuyi svetta spiritualm­ente e coltiva in silenzio i valori dello spirito e dell’uomo.

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