Il Sole 24 Ore

La favola del Grande Saggio

- di Claudia Galimberti

Caro Presidente, quando Lei ha detto, nelle parole che ci ha rivolto nel suo discorso di commiato, che una fata Vi aveva toccato con la sua bacchetta magica e Vi aveva trasportat­o in un Palazzo Incantato, mi sono venute in mente tutte le favole che conoscevo da bambina e allora ho pensato di dedicarLe una favola: spero che Le piaccia perché anche io ho vissuto giorni incantati nel Suo Palazzo, con la gioia di lavorare per Lei. Con stima e, se permette, amicizia Claudia Galimberti

C’era una volta un grande palazzo, in una terra lontana, dove i numerosi abitanti vivevano isolati, guardando il mondo fuori le mura con una sorta di autocompia­cimento per il loro fortunato destino.

In una bella mattina di primavera, primavera inoltrata con un sole già caldo, si presentò al cancello un grande saggio, un uomo che conosceva il sapore della vita, quello aspro delle delusioni, quello dolce della speranza e quello sapido e corroboran­te dei risultati ottenuti.

Fu allora che cominciò una nuova era. Impercetti­bilmente si notarono dei cambiament­i: la sveglia fu per tutti alle sette del mattino perché alle otto si era già al tavolo di lavoro. La lunga fila di auto fu sostituita da un piccolo pulmino, il sorriso cordiale sostituì quello rigido e formale, i discorsi vuoti di contenuti furono sorretti da una attenta documentaz­ione e si trasformar­ono in incoraggia­menti ed impegni. Il palazzo fu aperto a tutti, il suono della musica cominciò ogni giorno ad echeggiare le note dell’inno nazionale; la piazza si riempì di turisti e curiosi.

Cominciò ad aleggiare un’aria nuova che racchiudev­a orgoglio e fiducia, consapevol­ezza di non essere più soli, ma di appartener­e a una più grande entità chiamata Paese. Ma per capire meglio che cosa era in realtà il Paese, il Saggio cominciò a viaggiare in lungo e in largo e arrivò fino alla punta estrema del suo Paese, giù, giù, in basso, dopo essere stato anche in alto, più volte, senza stancarsi mai. Ma il suo vero obiettivo era un altro. Non voleva solo viaggiare per questo vasto territorio e scoprirlo nelle sue bellezze o nelle sue carenze, voleva qualcosa di più: costruire un filo diretto e continuo con gli abitanti, riprendere un’idea che era stata interrotta, una tradizione di saperi e suoni, di gusto del bello e di armonia. Voleva restituire dignità a una parola che al momento era vuota di significat­o. «Patria», difficile da riempire questa parola, che cosa si poteva mettere dentro? Ideali di libertà e giustizia già ripetuti mille volte? Si rischiava di farcirla male e troppo, come

un panino imbottito di tanti ingredient­i, che non per questo diventava più appetitoso, anzi era indigesto. Che cosa restava allora? Riempirla con la speranza e la fiducia, con la memoria della gente, con l’orgoglio del lavoro ben fatto, con la conoscenza delle proprie radici, con la solidariet­à della pace, con il suono della musica e i colori delle opere d’arte. Con le architettu­re delle chiese e le navi dei cantieri, con i moli dei porti e i parchi nazionali, con le domande dei giovani studenti e l’impegno delle donne, con il coraggio dei volontari e le mis-

sioni di pace delle Forze Armate; con le autostrade del mare e le gallerie alpine; con l’attenzione al territorio e alla salute dei cittadini; con l’incoraggia­mento alla ricerca e a un rapporto più diretto delle amministra­zioni con i cittadini; con il lavoro rispettato degli insegnanti e la tecnologia applicata ai servizi.

E con altro ancora, che lo portava vicino alla gente perché aveva un cuore generoso e una mente libera, come gli uomini giusti di cui parlano tutte le sacre scritture, o tutte le fiabe.

Un giorno gli scrisse un bambino, un altro una giovane donna infelice e poi un padre in pena e tanti altri che sentivano una presenza nuova e attenta ai loro problemi perché un sorriso può essere più importante di tante parole.

Le parole comunque continuava­no ad arrivare, trasportat­e da messaggi e messaggeri che con i loro bandi letti ad alta voce diffondeva­no ovunque l’apprezzame­nto del Grande Saggio.

Trascorser­o gli anni, nei giardini gruppi di down avevano imparato tanti segreti di fiori e piante, le note dei concerti suonate da giovani musicisti si erano diffuse nell’aria, artigiani e ricercator­i, storici e partigiani, studenti e professori, artisti e imprendito­ri erano stati ricevuti a Palazzo; il Gran Saggio aveva unificato un Paese diviso con l’uso costante del dialogo e del rispetto. La zavorra sulle ali del Paese, quella che impediva di spiccare il gran volo, si era alleggerit­a, ora bastava poco, il Paese, da solo, avrebbe saputo liberarsen­e: il Gran Saggio poteva tornare ai suoi affetti, il suo compito era finito. Aveva diffuso fiducia e speranza, spinto i giovani a guardare in alto e a rispettare gli anziani unendo insieme l e parti più preziose della società. Aveva portato conforto nelle situazioni difficili, solidariet­à nel dolore, ma anche sorrisi e strette di mano che avevano addolcito il cuore di tanti cittadini. Aveva incoraggia­to il lavoro e la produzione del made in Italy, in giro per il mondo. Le donne avevano trovato in lui un paladino attento ai loro talenti, gli studiosi un appoggio sicuro.

Fu così che si allontanò dal Palazzo circondato da applausi e rimpianti, pronto a una nuova missione perché, si sa, il destino dei Grandi saggi è quello di essere sempre in prima linea.

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amatissimo | Carlo Azeglio Ciampi, presidente emerito della Repubblica, scomparso venerdì a Roma
CONTRASTO amatissimo | Carlo Azeglio Ciampi, presidente emerito della Repubblica, scomparso venerdì a Roma

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