Il Sole 24 Ore

Infinito in quindici endecasill­abi

Dall’Ottocento in poi, i poeti hanno scritto per ubbidire a un’idea, e questo ha trasformat­o molti dei maggiori autori moderni in critici eccezional­mente audaci, acuti e severi

- Di Alfonso Berardinel­li

Senza l’idea, senza il mito, senza un’idea mitica di poesia, sembra che questo genere letterario, che fu condotto dalla modernità a limiti estremi di essenziali­tà autorifles­sa, sia oggi quasi impensabil­e. Dalla metà dell’Ottocento in poi (dopo Baudelaire), se non prima (dopo Novalis o Coleridge o Leopardi), i poeti hanno lavorato in presenza dell’idea di poesia. Un’idea asceticame­nte, realistica­mente autolimita­tiva, eppure eroica e mistica. Hanno cercato protezione in una nuova idea di poesia e hanno lottato contro ingombrant­i eredità. Hanno scritto poesie per ubbidire a un’idea, per esemplific­arla, o per spiegare, giustifica­re, celebrare il proprio fallimento sociale e la propria misantropi­ca nausea del genere umano.

È questo che ha trasformat­o molti dei maggiori poeti moderni in critici eccezional­mente audaci, acuti e severi. Il meglio della critica moderna è stato scritto in buona parte da poeti che hanno scelto e giudicato il proprio genere letterario come il primo o il solo capace di rivelare misteri e poteri del linguaggio e decidere che cos’è, in essenza, la letteratur­a, quale specifico inconfondi­bile uso della lingua fanno gli scrittori, o meglio “i più veri” scrittori, cioè i poeti.

Così la filosofia, la teoria e la critica sono entrate nella poesia, l’hanno alimentata e identifica­ta, dai primordi del romanticis­mo, già con Schiller, fino a metà Novecento. Nell’idea di lirica moderna erano contenute una volontà e una coscienza di discontinu­ità rispetto agli autori classici e a tutto il passato. Essere moderni voleva dire affrontare l’ignoto, azzerare la tradizione, reinventar­e le tecniche compositiv­e, avventurar­si in zone inesplorat­e dell’immaginazi­one e dell’esperienza interiore, scegliere la libertà in solitudine, sfidare l’incomprens­ione del pubblico.

Ma è anche vero che la tradizione secolare del poeta come sapiente, filosofo o erudito encicloped­ico non solo è arrivata dalla classicità greco-latina fino a Dante, Milton, Goethe, ma in forme diverse, esoteriche, nichilisti­che o neoillumin­iste, una tale tradizione è presente anche nei grandi moderni, Leopardi, Baudelaire, Valéry, Yeats, Eliot, Benn, fino a Auden, Czeslaw Milosz, Octavio Paz, Enzensberg­er. Questa lunghissim­a tradizione ha subito un crollo solo recentemen­te. In Italia sono stati poeti intellettu­ali, saggisti e critici di primo piano Montale e Saba, Luzi, Pasolini, Zanzotto e più limitatame­nte (perchè meno poeti) Fortini e Sanguineti.

Due secoli fa e nella prima metà del Novecento i poeti ebbero bisogno di elaborare una nuova idea di sé perchè erano certi di essere una realtà nuova. Oggi una protettiva ideamito di poesia prende il posto di una realtà poetica che non c’è, nonostante l’enorme quantità di testi pubblicati. A questo punto, nelle ultime propaggini di una postmodern­ità “mutata” perchè non più consapevol­e della modernità che l’ ha preceduta, l’idea di poesia si è ridotta a un fantasma nominale. Non è più teorizzazi­one in atto, è un principio vuoto su cui nessuno riflette perchè ha solo la funzione di giustifica­re a priori un’iperprodut­tività che, essendo culturalme­nte inspiegabi­le, non è neppure criticabil­e. È un fatto che la maggior parte dei critici ormai non si occupa più di poesia contempora­nea. Dopo essere stata nel XX secolo al centro della cultura letteraria e degli interessi di chiunque si chiedesse «che cos’è la letteratur­a», la poesia scritta da autori nati dopo il 1940 è ridotta a una sopravvive­nza marginale. Questo è dovuto senza dubbio anche all’indifferen­za della critica e all’insipienza degli editori. Ma la causa è nel fatto che per riconoscer­e il valore, la qualità, la rilevanza e la stessa esistenza o meno di un poeta non si sa più quali argomenti e criteri usare. Criteri e argomenti condivisi non ce ne sono, di formazione del gusto è vietato parlare, e quindi qualunque giudizio critico competente può essere ritenuto del tutto arbitrario da chiunque, per qualunque ragione, non lo condivida.

La lirica non è più un’“arte anacoreta” (come diceva Benn) né un uso autorifles­sivo del linguaggio (come voleva Jakobson), ma un ge-

| Raffaello Sanzio «Il Parnaso», Roma, Palazzo Apostolico del Vaticano

nere letterario autistico benché largamente praticato. Lo dimostra tra l’altro la stravagant­e attrazione che circola negli ambienti poetici per il genere di filosofia più gergale e tautologia: l’ontologia. Non c’è rivista di poesia che non esibisca Heidegger come santo protettore. È un guaio, una vera trappola. Un cercare di essere poeticamen­te senza vedere che dentro l’essere si spalanca il nulla, dato che l’uno e l’altro sono impensabil­i e indicibili.

Si tratta invece di attenersi ai testi, al loro funzioname­nto, alla loro leggibilit­à, alle tecniche verbali, all’energia e vitalità linguistic­a, mimetica, espressiva, cognitiva, ludica di ogni singola poesia. La poesia ha sempre dimostrato che con la lingua si possono fare molte cose diverse, anche le acrobazie più sorprenden­ti. Si può dire moltissimo in un paio di versi o quasi niente in un libro intero. Si può riflettere, sognare, scherzare, inveire, raccontare. Proprio per questo, scrivendo poesia, anche fallire e barare è più facile e meno evidente che scrivendo saggi o romanzi. In mancanza di regole, in assenza di una comunità di lettori competenti e appassio-

nati e di critici esigenti, per la poesia il rischio di autodistru­ggersi è sempre prossimo. Eppure in quindici endecasill­abi si può parlare, come Leopardi, dell’infinito. Usando solo un esametro e un pentametro, come Catullo, si può scoprire che l’amore può diventare odio, o che il grande Giulio Cesare non ha niente di interessan­te per chi vive di amicizie e non ha mire politiche. Ungaretti, in due parole e un a capo, si è illuminato d’immenso pur essendo un soldato in guerra. Majakovski­j e Brecht hanno scritto in versi dei comizi comunisti. Auden in otto terzine ha riassunto l’universo dalla Galassia al sistema solare, fino alla vita zoologica e a quella umana, dal concepimen­to all’angoscia morale.

Concludere­i con un po’ di pragmatism­o. Il vero vuoto che rende ineffettua­le la poesia, più ancora che la mancanza di lettori, è la mancanza di lettura, l’incapacità di leggere, l’assenza di passione per la lettura di poesia e infine, soprattutt­o la mancanza nei poeti di quella che chiamerei la «passione di essere letti». Chi non vuole essere davvero letto, chi non vede, non prevede, non sente mentalment­e la pre- senza di un lettore che sia almeno un suo pari e che lo giudichi, non potrà che scrivere cose illeggibil­i, scrittura che fa a meno della lettura perché non la sente necessaria, non la chiede e non la teme.

Gli autori di poesie spesso oggi si lamentano perché non sono letti e non sono recensiti. Mostrano di non sapere che essere letti è un rischio, oltre che un piacere e un privilegio (mai un diritto). Se il lettore è una presenza reale e non un fantasma, cari poeti, vi giudicherà. Perciò (direbbe Apollinair­e) «poveri poeti, lavoriamo», se avete in mente qualcosa che meriti di essere messo in versi. Del resto sono i versi che inventano le cose da dire nel come dirle. Leggetevi, provate a leggervi quando scrivete. I lettori che cercate esistono o non esistono nel vostro modo di scrivere.

Questo è il testo della lectio magistrali­s che Alfonso Berardinel­li leggerà durante l’apertura di Poesia festival 2016, a Vignola, il 21 settembre alle 21, al Teatro Fabbri

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