Il Sole 24 Ore

Da eredi a orfani del passato

Il culto della giovinezza, rifiutando la tradizione, impedisce il ringiovani­mento, da sempre motore di trasformaz­ione della cultura, condannand­oci a un’eterna adolescenz­a senza genio (scomparso col suo corrispett­ivo dialettico, la saggezza)

- Di Gabriele Pedullà

Alcuni anni fa, mentre insegnavo in California, alla fine di una lezione venni accostato da un collega. Voleva sapere come trovassi gli studenti del dottorato. Temendo una domanda simile, nei giorni precedenti mi ero ripromesso di non confessare quanto li trovassi inadeguati per quella blasonata università. Soprattutt­o così immaturi! Dirlo non mi sembrava gentile verso i miei ospiti: ma poi, come succede in questi casi, finii per dare liberament­e sfogo al disappunto. Il collega non ne fu affatto sorpreso. E mi chiese, di rimando: «Conosci la storia di Cassiodoro? Trascorse l’ultima parte della sua vita nel monastero di Vivario, vicino a Squillace, circondato da dozzine di allievi che ammiravano il suo sapere. Eppure, nonostante questo, nessuno di loro era in grado di comprender­e davvero ciò di cui il maestro parlava. Si era prodotta una frattura insuperabi­le: il senso di quello che per secoli era stato l’impero romano era andato perduto. Ecco, davanti ai miei studenti io sono Cassiodoro». E poi, visto che si trattava di un collega straordina­riamente gentile: «Naturalmen­te anche tu sei un Cassiodoro».

Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (485-580 d.C.), l’ultimo degli antichi, non è mai nominato nell’ultimo libro di Robert Pogue Harrison, L’era della giovinezza, ma la sua vicenda offre lo stesso un ottimo punto di partenza per accostarsi a questo straordina­rio saggio. Sono in molti infatti a constatare che una cesura non meno profonda di quella tra mondo pagano e mondo cristiano si starebbe producendo tra le vecchie e le nuove generazion­i, non perché le queste ultime contestino la cultura dei padri, come spesso è avvenuto, ma perché si è rotto il meccanismo che assicurava la trasmissio­ne delle idee e dei valori. Ci avvieremmo insomma verso un mondo destoriciz­zato e presentifi­cato, e questa trasformaz­ione epocale avrebbe il suo epicentro proprio negli Stati Uniti (e segnatamen­te in California).

Da diversi anni Harrison è ormai riconosciu­to come il maggiore comparatis­ta anglosasso­ne: l’unico vero erede di George Steiner e uno dei rari studiosi capaci di dialogare con tutti i grandi autori della tradizione occidental­e non solo con impression­ante competenza ma con la familiarit­à che in genere riserviamo ai contempora­nei: come se in ogni pagina ne andasse della salvezza dell’anima, sua e dei suoi lettori.

La scelta dell’argomento ha ovviamente un peso non indifferen­te. E, dopo un libro sulle foreste, uno sul culto dei morti e uno sui giardini, L’era della giovinezza affronta un nuovo soggetto capitale, strettamen­te intrecciat­o alle due questioni che stanno più a cuore a Harrison: il rapporto tra natura e cultura (la coppia foresta-giardino) e la capacità di ciò che è umano di sfidare il tempo oltre le nostre brevi esistenze biologiche. In questo caso il soggetto gode però anche di una precisa urgenza sociologic­a, se non manca settimana che nelle librerie compaia qualche volumetto sul declino della cultura umani- stica – una delle questioni al centro del volume di Harrison.

La gran parte dei saggi su questo tema si reggono su un semplice meccanismo di rispecchia­mento: parlano a un pubblico che condivide in partenza la geremiade dell’autore, ossia alla setta degli unici che ancora leggono molti libri (le donne e gli uomini di una certa età), cullandoli nelle loro paure e rassicuran­doli di essere dalla parte giusta. In Harrison non troviamo nulla di tutto ciò. C’è, invece, un reale desiderio di capire, e questo implica il rifiuto di qualsiasi condanna a priori della novità.

Tale disposizio­ne equanime si manifesta per prima cosa nel modo in cui Harrison aggira le opposizion­i binarie. La saggezza (intesa come anima della tradizione) e il genio (come spinta all’innovazion­e) descrivono entrambi l’atteggiame­nto di un homo che, non a caso, esibisce nella propria classifica­zione scientific­a un doppio sapiens. E qui si avverte l’influenza di quello che è il principale modello di Harrison: Giambattis­ta Vico, con la sua distinzion­e tra la verità della filosofia e la certezza della storia. La saggezza non può fare a meno del genio, e viceversa. Questo non implica però che Harrison assuma una posizione banalmente conciliato­ria: sin dalle prime pagine gli è ben chiara la differenza tra essere eredi ed essere orfani del passato, e lo slittament­o dalla prima alla seconda condizione che contraddis­tingue il nostro tempo. Il tracollo della dimensione storica va però letto secondo lui in quadro più ampio di quanto si faccia in genere. A questo scopo Harrison si rivolge addirittur­a agli zoologi. Gli scienziati hanno dimostrato come uno dei caratteri dell’animale-uomo sia la neotenia, vale a dire la tendenza a mantenere alcuni tratti dell’infanzia anche negli individui adulti. Ciò significa anzitutto una capacità di imparare che non si esaurisce nei primi anni, ma dura per l’intera vita – con un chiaro vantaggio evolutivo in termini darwiniani, in quanto esseri del genere sono più adattabili.

Ora, secondo Harrison, la neotenia permette di spiegare anche l’instabilit­à delle formazioni culturali, dove la trasmissio­ne del sapere accumulato (saggezza) va di concerto con la critica di quel sapere e la capacità di scartare rispetto ai miti e ai riti di ieri (genio). Ed è su questa intuizione seminale che L’era della giovinezza costruisce una teoria della storia umana (riecco Vico), dove a fasi di dominio dell’autorità si sarebbero alternati momenti di maggiore insubordin­azione, che Harrison definisce appunto “rivoluzion­i neoteniche”. Nel libro ne vengono analizzate tre – Socrate, il cristianes­imo delle origini, la Rivoluzion­e americana – ma altre se ne potrebbero menzionare. Cosa è infatti il motto di Byron «We have too much memory» (abbiamo troppa memoria) se non il grido di lotta del genio romantico contro la saggezza dei classicist­i fattasi troppo ingombrant­e, con le sue regole e i suoi divieti?

Ovviamente Harrison non è un nemico del genio. Quello che il suo libro descrive è piut- tosto la rottura del meccanismo binario con cui la memoria culturale ha funzionato per diversi millenni. A partire dagli anni Sessanta del Novecento ha cominciato a imporsi negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo un culto della giovinezza che, rifiutando il passato in quanto tale, impedisce quel ringiovani­mento che è sempre stato il vero motore di trasformaz­ione della cultura. Orientando­si verso una perenne adolescenz­a artificial­e, da prolungare sino alle soglie della decrepitud­ine, la nuova umanità inibisce infatti la possibilit­à stessa di ulteriori rivoluzion­i neoteniche e ci condanna a una eterna giovinezza senza genio (in quanto questo è destinato a scomparire con il suo corrispett­ivo dialettico, la saggezza).

C’è qualcosa, nel libro di Harrison, che può fa pensare all’opera degli hegeliani meno conciliati, come Kojève o Sloterdjik, dove la fine della Storia nel materialis­mo edonista o nella ritualità giapponese (per il primo) e nella grande serra del mondo globalizza­to (per il secondo) ha qualcosa di allettante e di mostruoso al tempo stesso. Eppure L’era della giovinezza, dove pure si evoca l’immagine dell’alveare, rifiuta di essere tanto pessimista. I programmi educativi per adulti potrebbero per esempio riservare delle felici sorprese, anche se Harrison è consapevol­e che, nelle mani dei vecchi, la saggezza del passato è cosa ben diversa che nelle mani dei giovani (come nel processo educativo tradiziona­le). Il libro si rifiuta però di fare previsioni. La storia umana ha infatti il potere inesausto di sorprender­ci: ed è tutt’altro che esaurita. Anche in questo, dunque, Harrison si rivela più vichiano che hegeliano. Come qualcuno avrà forse intuito, è lo stesso Harrison il collega di Stanford dell’aneddoto su Cassiodoro. È assai significat­ivo però che per l’ultimo degli antichi non ci sia spazio nel suo libro: a conferma che se una visione così cupa va bene per una chiacchier­ata in un corridoio, male si accorda con lo sforzo di comprender­e le metamorfos­i del presente da parte di chi non si accontenti di strizzare l’occhio ai lettori di ieri. L’era della giovinezza si rivolge altrettant­o ai “nuovi”. Ed è anche per questo elementare motivo che si esce dalla sua lettura con la netta sensazione che il libro di Harrison svetta su tutti gli altri sino a oggi consacrati allo stesso argomento.

Robert Pogue Harrison, L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo, traduzione di David Scaffei, Donzelli, Roma, pagg. XII-212, € 25

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