Il Sole 24 Ore

Una « cultura » antiempiri­ca

In Italia fatti e opinioni sono confusi prima di tutto da chi dovrebbe insegnare a saperli distinguer­e

- di Gilberto C or bellini di Franco Matticchio

Cercare di portare prove a ciò che si dice non è costume degli intellettu­ali italiani. Il Paese soffre di un gravissimo deficit di cultura scientific­a

Piùomeno da quando ho smesso i calzoni corti leggo discussion­i sulla cultura classica e/o umanistica, su quanto questa conti per la formazione del cittadino democratic­o, che le persone che conoscono i classici sarebbero in qualche modo migliori e più felici, sulla superiorit­à, equivalenz­a o inferiorit­à del liceo classico, etc. Scrivendo un libretto sulle basi culturali e psicologic­he della democrazia dei moderni, ho studiato l’evoluzione storica del dibattito in alcuni contesti sociopolit­ici occidental­i e mi sono fatto alcune idee. Così, anche su questo tema mi sono trovato in sintonia con Giovanni Jervis, condividen­do l’insofferen­za per le discussion­i basate su esperienze personali, impression­i ,“sentito dire ”, etc. Soprattutt­o perché esiste una mole ingente di dati empirici che consen- tirebbe di entrare nel merito.

Viviamo, e alleviamo i giovani, in una cultura nazionale “antiempiri­ca”, dove fatti e opinioni sono confusi prima di tutto da chi dovrebbe insegnar loro a saperli distinguer­e. Cercare di portare prove di quello che si dice non è costume degli intellettu­ali italiani, in generale.

Siamo il paese dove è stato descritto il familismo amorale e dove l’educazione cattolica ha un forte peso in età giovanile. Inoltre i programmi scolastici e il genere di cultura umanistica propinata ai giovani, carente di letteratur­a e filosofia anglosasso­ne, non aiutano a capire il funzioname­nto del mondo moderno.

Cercando di capire perché l e élites politiche, governativ­e, economiche, etc. di questo paese da un certo momento in poi le hanno sbagliate tutte, mi sono ricordato che fino al 1969 si poteva accedere alla facoltà di giurisprud­enza (e ovviamente di lettere) solo con la maturità classica. Ora, non penso certo che sia l’unica causa, ma Felice Ippolito, Adriano Buzzati Traverso o Antonio Ruberti scrivevano che in Italia non si riusciva a trovare nei l eader politici, parlamenta­ri, imprendito­ri e banchieri qualcuno che capisse l’importanza della cultura e della ricerca scientific­a per la crescita economica e civile del paese. Non penso si possa additare tutto alla cultura cattolica, anche perché fino a metà anni Sessanta diversi ministri e dirigenti di area democristi­ana erano sensibili ai problemi della politica della scienza. Molto più di politici e dirigenti comunisti e socialisti. Non ho le prove, ma ipotizzo che proprio a causa del deficit di cultura scientific­a presso le élites di questo paese il Parlamento italiano abbia votato cose incredibil­i, come la sperimenta­zione della terapia Di Bella, la messa al bando della ricerca sugli Ogm, la legge 40, etc. E cosa dire delle sentenze di giudici basate su credenze pseudoscie­ntifiche? Vogliamo discutere delle idee sulla natura del diritto e della legge che sono state i nsegnate nelle facoltà di giurisprud­enza, così smettiamo di meraviglia­rci per certe disfunzion­i della giustizia in Italia?

Fino ai tempi di Togliatti e De Gasperi forse era abbastanza indifferen­te se i politici avessero o meno una cultura scientific­a, ma non scordiamoc­i per favore cosa scrivevano Croce, Gentile e il 90% dei filosofi italiani sulla scienza, dopo l’ubriacatur­a di positivism­o che aveva interessat­o anche l’Italia nei decenni a cavallo del 1900, e che aveva portato in parlamento decine di scienziati, concepito alcune leggi sanitarie molto avanzate e portato alla creazione di enti di ricerca come il CNR. Da mezzo secolo almeno però non è più indifferen­te. Lo stucchevol­e clima anti-intellettu­alistico, ma soprattutt­o anti-empirico che oggi caratteriz­za per esempio la logorrea populista e complottis­ta, è figlio delle amenità e insensatez­ze relativist­e che hanno infettato soprattutt­o l’ambiente culturale di sinistra.

E poi, è vero che gli scienziati creativi hanno molto spesso anche una solida cultura umanistica, e conoscono a livello quasi specialist­ico soprattutt­o arti visive o musica. Ma probabilme­nte sanno apprezzare la cultura umanistica anche perché sono creativi e scienziati.

Il fatto è che troppi umanisti non sanno niente di scienza, e questo avrebbe poca importanza se non giudicasse­ro questa lacuna o irrelevant­e o un merito. Questo non c’entra col saper tradurre dal greco e dal latino, ma se queste capacità sono rinforzate socialment­e si crede di possedere gli strumenti migliori per capire il mondo e si assume un tipico atteggiame­nto di disimpegno di fronte ai propri limiti rispetto ad altri contenuti culturali.

Negli ultimi trenta o quaranta anni è stata pubblicata una montagna di ricerca empirica su come si sviluppa l’epistemolo­gia personale, cosa credono le persone sulla natura della conoscenza, e quando o come cambiano queste credenze, fino ad accedere al piano del pensiero critico; cioè a fare ragionamen­ti valutativi e ad accorgersi dei bias cognitivi ed emotivi che ostacolano una comprensio­ne pertinente dei fatti e degli argomenti. Esistono persino studi su quanti laureati nelle prestigios­e università dell’Ivy League sono in grado di capire quella ventina di idee chiave senza le quali mancano gli strumenti cognitivi per apprezzare criticamen­te il funzioname­nto delle società moderne. Il filosofo morale e psicologo dell’intelligen­za James Flynn ha condotto lo studio e ha scritto un libro in merito: Osa pensare (Mondadori 2013). Prima di stracciarc­i pubblicame­nte le vesti per le sorti del liceo classico, proviamo discutere di questi fatti.

Tra queste idee chiave ci sono la fallacia naturalist­ica, il sillogismo pratico, la legge della domanda e dell’offerta, l’effetto placebo, il gruppo controllo, etc. Personalme­nte, ad esempio, penso che sia un handicap cognitivo grave e che non si dovrebbe uscire da una qualunque maturità senza sapere cosa è e come funziona un trial clinico.

Per la discussion­e in corso giudico istruttivo un dibattito grosso modo analogo che si svolse negli anni Trenta negli Stati Uniti. Tra le due guerre in quel paese ferveva una discussion­e accesa sulle basi culturali della democrazia e quali fossero i fattori che potevano esporre quel paese agli stessi rischi di totalitari­smo che stavano spazzando via le libertà in tre quarti dell’Europa. Nel 1936 il filosofo dell’educazione Robert Maynard Hutchins, che presiedeva la Chicago University, pubblicava un libro i ntitolato The higher learning in America, dove sosteneva che l’università americana era diventata anti-intellettu­alistica a causa di un’istruzione naturalist­ica e scientific­a che aveva alimentato lo scetticism­o. A questa deriva, contrappon­eva la superiore saggezza della metafisica e degli studi classici. A suo dire, anche «le scienze naturali derivano i loro principi dalla filosofia della natura, che a sua volta dipende dalla metafisica». Un tesi che molti filosofi ripetono, ma più per sentirsi utili che non perché possano provarla. Per Hutchins il naturalism­o scientific­o produceva confusione sociale, in quanto affetto da presentism­o e scientismo, e in ultima istanza portava al totalitari­smo. E qualcuno ci crede ancora, se usa il termine “scientista” come un insulto.

L’anno successivo il filosofo John Dewey commentava criticamen­te le tesi di Hutchins sulla rivista «The Social Frontiers» e tra i due si accendeva un confronto che illustrava l’incomunica­bilità tra quei punti di vista circa il genere di istruzione utile per allevare i cittadini più adatti per il buon funzioname­nto della democrazia. Una sintesi delle tesi di Dewey si può leggere in un appassiona­to e bellissimo saggio del 1942, intitolato Anti-naturalism in extremis, dove il filosofo contesta pun- tualmente che il naturalism­o scientific­o fosse stato all’origine delle degenerazi­oni sociali e politiche che avevano prodotto i totalitari­smi, argomentan­do che in realtà la condizione umana era di molto peggiore quando non c’era la scienza e dominavano le credenze metafisich­e e religiose.

Una cosa che Dewey dimenticav­a è che noi non ereditiamo quello che impariamo, e non teneva conto che veniamo al mondo con centinaia di bias che erano funzionali per farci sopravvive­re nel mondo preistoric­o, ma che non aiutano a capire come e perché il mercato, lo stato di diritto, lo scetticism­o scientific­o, etc. hanno prodotto società migliori. Questo vuol dire che siamo naturalmen­te predispost­i per apprezzare gli intratteni­menti televisivi dove si mettono a discutere di fatti persone che conoscono ciò di cui stanno parlando con altre che possono solo giudicare impression­isticament­e e ragionando in modi esagitati. E siamo predispost­i per coltivare credenze contraddit­torie( dissonanza cognitiva) e per negare le prove che dispiaccio­no al nostro sistema limbico.

Se esce quasi un libro al mese che illustra con numeri e fatti tutto quello che più apprezziam­o, inclusa la possibilit­à di fare studi classici, lo dobbiamo all’impatto cognitivo e morale del pensiero scientific­o, cioè critico.

Non vorrei essere frainteso. Tradurre dal greco e dal latino è un esercizio intellettu­ale molto sano. Come tradurre ingenerale. È un procedimen­to empirico, e alcuni filosofi hanno paragonato il lavoro ermeneutic­o con la procedura falsificaz­ioni sta che usano gli scienziati. Popper però non penso che sarebbe stato d’accordo, avendo scritto anch’egli che una cultura umanistico­letteraria non aiuta da sola a capire la natura e il posto della scienza nell’evoluzione culturale umana.

Un po’ di umiltà e senso della misura non farebbe male a noi umanisti. Perché progettare un nuovo vaccino, un algoritmo in grado di apprendere, un esperiment­o per stabilire se sia la molecola X o quella Y a causare l’effetto Z,e a quali condizioni, etc. non è cosa banale. Non è di sicuro più facile che tradurre Cicerone o leggere il Parmenide di Platone e la Metafisica di Aristotele. Altrimenti si sta con quel tale decisament­e sopravvalu­tato, il quale diceva che la «tecnica non pensa»(Heidegger), ma che guarda caso (e non per caso) era anche un po’ nazista.

Anche l’idea che gli studi classici e umanistici rendano saggi è discutibil­e. E comunque le società moderne progredisc­ono, e migliorano le persone, perché premiano l’intelligen­za e non la saggezza. Perché l’idea di saggezza che emerge dagli studi classici è diversa da quella di cui parlano scrittori, filosofi o psicologi contempora­nei. È intesa come una delle quattro virtù cardinali, cioè come prudenza e quindi con una forte componente legata al senso comune e all’avversione al rischio. In realtà, nella società moderne e grazie alla scienza il senso comune viene addomestic­ato e l’avversione al rischio governata usando i dati e la conoscenza per decidere i cambiament­i necessari da fare senza paralizzar­si e trastullar­si sacralizza­ndo o imbalsaman­do l’esistente. Si pensi al dibattito incorso sul referendum costituzio­nale: invece di usare argomenti prudenzial­i o quasi terroristi­ci contro la riforma costituzio­nale bisognereb­be usare l’intelligen­za per cercare di capire i pro e i contro, evitando di farsi influenzar­e da chi fa leva sull’emotività.

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