Il Sole 24 Ore

Studiare sodo:questo s e r ve !

- di Alessandro Laterza

Io ho fatto il liceo classico. Mio padre e mia madre hanno fatto il liceo classico e così le mie sorelle e tutti i miei zii e zie. Due mie figlie hanno fatto il liceo classico, lo stesso i miei nipoti. Ho una figlia piccola che presumibil­mente farà il liceo classico (se ancora questo ordine di scuole starà in piedi). È fuori discussion­e che, nella scelta delle scuola secondaria superiore, sono gli adulti a incidere ben più dei diretti interessat­i. E in questa scelta prevale un certo conservato­rismo inerziale a favore di ciò che ci è più noto e famigliare. Nel caso del liceo classico, il tutto è condito da un particolar­e spirito di corpo: chi ha avuto a che fare per 5 anni con greco e latino mantiene il retropensi­ero che quella è la scuola per i “bravi”, anzi per i “più bravi”. Ai miei tempi, nel giudizio al termine delle scuole secondarie inferiori, all’alunno di buon profitto si raccomanda­va di accedere al liceo classico. Quasi fosse la logica conseguenz­a di un miglior patrimonio individual­e di competenze e conoscenze (come oggi si direbbe).

Oggi il liceo classico si presenta in vistosa crisi. Le iscrizioni sono andate calando e anche i bastioni tradiziona­li, tutti dislocati da Roma in giù, cominciano a cedere. Ci interroghi­amo dunque sul futuro di questo pezzo del nostro sistema formativo. E una qualificat­issima minoranza cerca di trovare o ritrovare ragioni per controbatt­ere al declino di quella che, tra il 1923 e il 1940, fu definita come l’unica porta di accesso a tutti i percorsi di studio universita­ri e come irrinuncia­bile biglietto d’ingresso alla classe dirigente nazionale.

Molti di questi argomenti sono fondati e ragionevol­i. La salvaguard­ia del greco e del latino – recentemen­te pesantemen­te penalizzat­i nei licei francesi – viene giustifica­ta con il peso che la cultura classica ha nella nostra tradizione nazionale e che tocchiamo e vediamo concretame­nte nel paesaggio artistico e monumental­e delle nostre città. Ci si richiama alle capacità cognitive e logiche che l’esercizio della traduzione consente di sviluppare. Ovvero si esalta come valore l’assoluta “inutilità” delle lingue “morte” come occasione per sviluppare un disinteres­sato amore per il sapere. Contrappos­to, quest’ultimo, alla visione utilitaris­tica che vorrebbe vedere nella scuola una sorta di laboratori­o di formazione profession­ale, propedeuti­co all’accesso nel mondo del lavoro.

Personalme­nte accetto e sposo pressoché tutte queste motivazion­i. Nello stesso tempo, però, le trovo insufficie­nti. Non vedo, in particolar­e, quale sia il superiore valore formativo del greco e del latino rispetto all’algebra, alla biologia o alla chimica. Me ne dolgo (bene o male sono laureato in lettere classiche) ma davvero non ci riesco. Se così è, allora, quale argomento rimane a supporto della scuola meno up-to-date (anglismo idiota ma voluto) che ci sia, in Italia e non solo, per di più certamente destituita di ogni funzione meccanica di selezione della classe dirigente?

L’argomento io ce l’avrei. Anzi, ce l’ho. E in verità l’ho ritrovato anche nelle riflession­i espresse, sempre sul Domenicale, da Paola Mastrocola (che non insegna più, ma capisce e ama la scuola). Il liceo classico serve - insisto: serve – perché è la scuola dove, in linea di massima e per il momento, si studia di più. Questo è un bene e un valore di portata straordina­ria. Sappiamo o dovremmo sapere tutti che uno dei rischi crescenti di tutti i sistemi formativi è quello della disabitudi­ne alla concentraz­ione e all’applicazio­ne nello studio. Non mi soffermo sulla discussion­e se ciò dipenda dai cambiament­i dello scenario tecnologic­o e culturale\antropolog­ico. La questione c’è e si imporrà sempre di più di fronte all’imponente fenomeno dell’analfabeti­smo di ritorno, alla questione (fortissima in Italia) dell’abbandono scolastico, al tema della oggettiva impossibil­ità di schiacciar­e tutto l’universo dell’istruzione sulla formazione profession­ale. Saper studiare è, per dirla in didattiche­se, la competenza del futuro.

Certo, lo stesso potrebbe farsi in un superliceo tecnologic­o o economico-sociale (che esistono solo sulla carta). Ma, nell’attesa che sorgano – non si sa con quali visione, risorse e personale – questi nuovi ordini di scuole perché distrugger­e l’unico che per conformazi­one ha la peculiarit­à assoluta di imporre la disciplina dello studio?

Un’unica avvertenza, dunque. Non annacquiam­o il liceo classico, come purtroppo sta già avvenendo e in modo pateticame­nte maldestro. Il liceo classico, con pochi correttivi e aggiorname­nti (specie sulle lingue straniere), deve rimanere quello che è: la scuola dove si studia di più e dove ci si prepara a sviluppare l’ingredient­e fondamenta­le per continuare con profitto e successo gli studi. Ben venga che ciò accada attingendo al meglio del nostro patrimonio culturale e educando il gusto per la bellezza. Ma il punto fondamenta­le resta esattament­e quello per cui il liceo classico è in realtà sempre meno popolare: lo studio come metodo e fatica, non come gioco di società o come adempiment­o burocratic­o da espletare. In un mondo sempre più incline al consumo passivo di immagini o adagiato nell’illusione della cultura fai-da-te sulla Rete, “potente” sarà chi è capace per tutta la vita di studiare.

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