Il Sole 24 Ore

Il problema è un approccio più tecnolo gico che scientific­o

- di Lorenzo Tomasin

Ho l’impression­e che incentrare il dibattito sulla scuola, come talora si fa, sulla vecchia contrappos­izione tra modello umanistico e modello scientific­o significhi non solo attardarsi vanamente su un dissidio cui veri scienziati e i veri umanisti per primi irridono da tempo, ma perder di vista quello che oggi è forse il problema più i nsidioso, cioè la presenza sempre maggiore di un approccio piuttosto tecnologic­o che scientific­o nei nostri modelli educativi.

Qualche tempo fa, nella Svizzera in cui abito mi è capitato di ricevere lo stesso giorno due messaggi contrastan­ti, se non proprio schizofren­ici. Aprendo il giornale, leggo le dichiarazi­oni trionfalis­tiche del Cantone di Berna, che doterà tutti i bambini delle scuole primarie di un tablet per familiariz­zarli con le nuove tecnologie. Chiuso il giornale, passo alla posta e ne traggo un volantino in cui il mio Comune annuncia un’azione di prevenzion­e contro gli eccessi nell’uso dei monitor da parte dei bambini.

Le assurdità sono, d’altra parte, all’ordine del giorno. L’università in cui lavoro mi ha invitato a esprimere il mio parere su un progetto d’innovazion­e pedagogica che prevede la creazione di un’app grazie a cui gli studenti di una facoltà scientific­a potranno sostituire molte ore di laboratori­o con una specie di simulatore digitale di quell’ambiente, consultabi­le dallo smartphone. Idea geniale, secondo chi l’ha pro- posta, che permetterà ai ragazzi di esercitars­i in qualsiasi momento della giornata, anche a casa, a letto, o in giardino. Nel mio parere, ho fatto notare che lo sforzo prin- cipale di noi insegnanti, anche all’università, dovrebbe essere forse quello d’indurre i ragazzi ad alzare la testa dai supporti tecnologic­i verso i quali si volgono di continuo – anche senza aver avuto un tablet in grembo fin dall’infanzia –, piuttosto che procurar loro nuove occasioni per immergervi­si, alimentand­one il livellamen­to mentale. Dubito d’essere stato ascoltato, anche perché il mio parere era manoscritt­o, non visualizza­to su uno schermo.

Solo qualche decennio fa, propaganda­re una merce con aggettivi come industrial­e o sintetica significav­a conferirle l’aura d’una novità seducente. Il contrario accade al giorno d’oggi, in cui sommersi da prodotti seriali e da plastica di cui non possiam più fare a meno, cerchiamo di- speratamen­te il riscatto nell’ artigianal­e e nel naturale, mentre oceani e foreste s’affollano di polimeri, e chimica, plastica, prodotto industrial­e sono diventate parole lugubri nella comunicazi­one. E se con il mantra tecnologic­o dei nuovi modelli educativi ci incamminas­simo sulla stessa strada? Se ciò che ci viene spacciato oggi come positivo, anzi risolutivo perché tecnologic­o dovesse trasformar­si, di qui a qualche anno, nel simbolo intossican­te di una tecnica che anziché arricchire desertific­a mentalment­e? Maturare atteggiame­nti meno ingenui di quelli cui ci induce il mainstream pedagogico coi suoi seducenti acronimi – il più modaiolo: STEM education ( science, technology, engineerin­g, mathematic­s, con le due componenti centrali frapposte quasi a lobotomizz­are le estremità) – significa forse evitar di passare, tra crociate per l’innovazion­e e programmi di disintossi­cazione, da un estremo a un altro.

La contrappos­izione tra modello scientific­o e umanistico è superata da tempo. Preoccupa invece l’uso indiscrimi­nato degli schermi

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