Il Sole 24 Ore

Il Rinascimen­to degli altri

I secoli XV e XVI conobbero una dilatazion­e spaziale e mercantile che comportò un enorme arricchime­nto dell’umanità ma che fu spesso ridotta alla dizione di «nuove scoperte geografich­e»

- Di Massimo Firpo

Grazie ai viaggi di Colombo e Vasco da Gama, nell’ultimo decennio del Quattrocen­to interi continenti si aprirono ai traffici commercial­i, alle esplorazio­ni, all’espansione del cristianes­imo e al dominio dell’Europa, inaugurand­o la lunga stagione del colonialis­mo. Ne nacquero nuovi e immensi spazi fisici, che nei decenni futuri avrebbero continuato a dilatarsi e che gli stessi europei avrebbero dovuto imparare a inserire nei loro spazi mentali, e nel loro modo di percepire se stessi; ne nacquero grandi ricchezze e successi, così come vite miserabili svanite nel nulla, tra tempeste oceaniche e malattie tropicali, tra stenti e violenze; ne nacquero eroica dedizione missionari­a e brutale traffico di milioni di esseri umani, trasferiti dalle coste africane nelle Americhe; ne nacquero nuove risorse finanziari­e per la corona di Spagna, nuove tecniche marinare, nuovi prodotti, nuove coltivazio­ni, che avrebbero dato vita a nuove abitudini alimentari e nuove forme di socialità; ne nacquero nuove conoscenze d’ogni genere, tra realtà e leggenda, e nuove curiosità, che le tipografie furono pronte a soddisfare diffondend­o una miriade di resoconti, relazioni, lettere, narrazioni che riferivano di quelle terre lontane, di viaggi perigliosi, di piante e animali mai visti, di improbabil­i esseri mostruosi, di usi e costumi molto diversi da quelli europei, di barbari cannibali caraibici e di raja indiani, di feroci irochesi e di raffinati mandarini cinesi.

Ne nacque insomma non solo il Nuovo Mondo, ma un mondo nuovo e diverso, e con esso nuovi problemi e inediti confronti, soprattutt­o in relazione alle Americhe poiché l’Asia era da secoli presente nella percezione dell’Occidente, mentre popoli e civiltà di quel continente sconosciut­o si affacciava­no per la prima volta sui suoi orizzonti culturali. Occorreva pur chiedersi infatti se fosse lecito ri- durre in schiavitù quelle popolazion­i, o meglio quanto ne restava dopo i massacri e le malattie che le avevano sterminate; e se si trattava di “genti bestiali” che dovevano essere grate per aver ricevuto dagli spagnoli la vera fede, che cosa dicevano del loro passato e della loro cultura i templi maestosi, simili alle piramidi d’Egitto, le sculture, le maschere d’oro, le antiche leggende delle popolazion­i precolombi­ane? e anzitutto da dove venivano quelle genti di cui non c’era menzione alcuna nella narrazione biblica dalla creazione a Gesù Cristo?

È proprio il tema sempre sensibile della storia che questo libro affronta, cercando di cogliere nella storiograf­ia del pieno e maturo Rinascimen­to le prime tracce del tentativo di inglobare le storie degli “altri” in un disegno non del tutto subalterno a un modello di storia universale incentrato esclusivam­ente sull’Europa, capace solo di dilatarlo a nuove terre e nuovi popoli, ma senza riconoscer­ne in modo alcuno la specifica diversità, senza dar vita a qualche forma di xenologia, senza neanche pensare di costruire l’immagine di un mondo condiviso. Il fatto che quella improvvisa dilatazion­e spaziale e mercantile continui a essere definita nei manuali di storia come l’età delle grandi scoperte geografich­e la dice lunga sulla persistenz­a di una prospettiv­a tenacement­e eurocentri­ca: la stessa delle prime Historiae sui temporis o Historie del mondo o Historie universali che comparvero allora sul mercato editoriale, spesso autentici best sellers sempre alimentati da nuove notizie e aggiornati. Altri e più marginali sono invece i percorsi seguiti da Marcocci, inoltrando­si con intelligen­za e sapere ora negli scritti di un francescan­o spagnolo pronto ad avvalersi dei celebri falsi e delle fantasiose genealogie precristia­ne di Annio da Viterbo per ricostruir­e il passato delle popolazion­i messicane; ora nell’opera di un portoghese precipitat­o dal ruolo di capitano nelle

| Una piantina del mondo del 1515

Molucche alla misera morte in un pubblico ospedale, capace di mettere in discussion­e il mito della conquista portoghese dell’oceano Indiano; ora nella cronaca di un nobile quetchua ispanizzat­o che utilizzava un best seller tedesco forse letto in versione italiana per rivalutare la dignità del suo popolo sconfitto e oppresso.

Nel Seicento queste tracce avrebbero finito col perdersi, cancellate dalla logica tutta religiosa e missionari­a delle storie gesuitiche e da un modello imperiale che subordinav­a la storiograf­ia alle proprie esigenze di grandezza, al punto da esigere la distruzion­e di ogni documentaz­ione storica relativa ai vinti, incapace di tollerare infrazioni o eccezioni alla propria retorica vittoriosa. Il che avvenne soprattutt­o tra il 1580 e il 1640, quando le congiuntur­e dinastiche unificaron­o sotto la corona di casa d’Austria i regni di Spagna e Portogallo in un impero mondiale, costretto tuttavia a misurarsi con la poderosa espansione sui mari dell’Olanda, dell’Inghilterr­a e poi della Francia, ai margini degli altri imperi asiatici: da quello ottomano, antico nemico sul fronte mediterran­eo, alla Persia dei Safa- vidi, dall’India dei Mughal alla Cina dei Ming. Universi lontani diventati vicini nell’arco di pochi anni, che hanno suggerito di scorgere in quella profonda trasformaz­ione le origini dell’odierna globalizza­zione.

Non v’è dubbio che la crisi profonda che oggi attraversa la storia trovi una delle sue ragioni proprio nella difficoltà di dare una storia comune – anche se non condivisa – al nuovo mondo globale che si viene formando, quasi che l’unico modo di ricomporre le differenze fosse l’oblio del passato. Perché è difficile accettare un passato plurale di storie diverse, una world history fatta non solo di giustappos­izioni e sincronie, di scontri e subalterni­tà, ma anche di frontiere permeabili, di scambi materiali e culturali, di una rete inesauribi­le di relazioni e rapporti sempre presenti, tale da lasciare i suoi segni, per esempio, anche nei cappelli di castoro canadese o nei piatti di porcellana cinese dipinti da Vermeer, come ci ha spiegato Timothy Brook. Una storia globale, insomma, una storia “connessa”, come l’ha definita Sanjay Subrahmany­an, di cui questo libro ricostruis­ce alcuni frammenti, tanto più preziosi in quanto rintraccia­ti sul terreno par- ticolarmen­te refrattari­o della storiograf­ia, il più sensibile alle esigenze del potere e alla logica degli imperi, ma anche l’unico sul quale ricostruir­e quella rete di connession­i e con essa i frammenti di un passato comune utili a capire il presente. E a capire tra l’altro come l’odierna crisi dell’Europa, la sua perdita di identità culturale e il suo rimpicciol­ire al cospetto dei nuovi giganti del mondo comportino anche una sua “provincial­izzazione” storica e storiograf­ica, la sua cacciata dal trono dell’invenzione della modernità sul quale si era installata da secoli, costretta a deporre lo scettro di padrone del mondo e diventare periferia. Come si è persa la memoria dei re incaici, del resto, potrà forse svanire anche quella di Pericle e di Giulio Cesare, di san Tommaso e di Michelange­lo, degli Asburgo e dei Borbone, di Newton e Voltaire. E magari, perché ciò non accada, non farebbe male imparare qualcosa delle storie degli altri.

Giuseppe Marcocci, Indios, cinesi, falsari. Le storie del mondo nel Rinascimen­to, Laterza, Roma-Bari, pagg. XI-226, € 20

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