La capacità d i g u a rd a re lontano
Di Aldo Moro si è detto continuamente che è stata una figura con un proprio profilo, tutto suo. Di questo profilo, tuttavia, si sono perdute le fonti. Eccetto i testi della prigionia, non si disponeva più di una raccolta che almeno proponesse il senso di quel profilo. Il merito di Governare per l’uomo è proporre una raccolta significativa tra le prime scritture (intorno al 1943) e le soglie della morte (1978).
Tre i temi: 1) la concezione dello Stato; 2) la riflessione sulla classe politica; 3) l’attenzione sulla società civile. Tutti e tre parlano a noi, oggi.
Aldo Moro credeva nell’idea dello Stato come un processo, come un prodotto in divenire che, eccetto per il principio del governo rappresentativo, non fosse un dato fissato per sempre. «La costruzione democratica dello Stato - dice nel 1959 – non è un punto di arrivo, ma solo un punto di partenza. Senza disconoscere la grandiosità del fenomeno per cui esso appare felice superamento di egoismi, affermazione di un’ideale, espansione nella giustizia delle personalità umane, certo è che lo Stato democratico nega in radice, non per calcolo, ma per principio, la rozza chiusura dello Stato totalitario» [p. 85]. È il profilo di ragionamento che apre alla sua proposta politica verso il Psi e che all’inizio degli anni 60 produce il centro-sinistra. È lo stesso principio che, pur con maggior cautela, dieci anni dopo sovrintende l’apertura del dialogo con il Pci di Enrico Berlinguer. Un confronto in cui Moro non attenua le distanze e in cui chiede che si metta al centro la visione globale dell’ordine sociale che li distingue più che solo le necessità del momento [p. 263].
Nel marzo 1976 alla vigilia di quelle elezioni che, nella storia dell’Italia repubblicana, più di ogni altre marcarono il bipolarismo di fatto (due partiti, Dc e Pci, che rispettivamente raccolgono i ¾ dei voti), Aldo Moro interviene al Congresso del suo partito e sottolinea come il collasso del sistema possa non essere solo un’ipotesi se a fronte degli scandali politici non si dà una risposta capace di soddisfare la domanda d’intransigenza che sale dall’opinione pubblica. «Bisogna rinunziare - afferma nel suo intervento, nel silenzio della sala congressuale - di fronte a un’opinione pubblica giustamente sempre più esigente, anche alla più piccola delle concessioni, anche alla più innocente delle facilità. Altrimenti la reazione, invece che mettere in discussione uomini e partiti, potrebbe chiamare in causa le libere istituzioni» [p. 274]. È un passaggio interessante, perché esprime come dall’interno del mondo della politica alcune figure erano consapevoli dei rischi di una scelta che mirava a salvare l’esistente, anziché a rinnovarsi. Per quanto a molti oggi possa apparire incredibile, c’è stato un tempo in cui la politica «guardava lungo».
Il terzo aspetto riguarda l’investimento sul futuro: da una parte l’università come luogo della formazione (un tema su cui Moro è attento fino dagli anni 40 e su cui significativamente il curatore del volume Michele Dau propone alcuni scritti rari del periodo 19431946, p.e. pp. 35-38 e 51-53) dall’altra l’attenzione alle giovani generazioni che, soprattutto a partire dal ’68, esigono una nuova idea di politica come afferma intervenendo al Consiglio Nazionale della Dc nel novembre di quell’anno [pp. 225-239]. Nella memoria pubblica di tutto questo, della sua riflessione, della cifra del suo interrogare e scavare nella realtà del suo tempo, rimane ben poco. Di Aldo Moro, a trentotto anni dalla tragica morte restano le lettere dei suoi ultimi giorni. Rimane la vicenda umana, non il “rovello politico”, forse anche uno stile che nella sua ambiguità si è affermato come retorica, ma non l’inquietudine delle domande.
Come ha sottolineato anni fa Miguel Gotor «il valore morale di quell’epistolario è proprio nell’antieroismo programmatico di quest’uomo, nella sua normalità» (Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Einaudi, p.191). Insieme a quella normalità, uno dei tratti della personalità di Aldo Moro, è importante misurarsi con un linguaggio che allude, che dice e allo stesso tempo non dice. Tratto che Leonardo Sciascia ( L’affaire Moro, Sellerio, p. 22) aveva colto con acutezza subito dopo la morte di Moro in quella che rimane la prima, per molti aspetti insuperata, analisi culturale della mens politica dello statista. Con quel «rovello» intellettuale e politico e le questioni che lo «carburavano» è opportuno tornare a prendere confidenza. La scelta antologica che propone Michele Dau, pur non completa, rappresenta uno strumento utile in questa direzione. Soprattutto consente di riempire un vuoto. Non è poco.