Il Sole 24 Ore

La dialettica sui confini

Tra la chiusura populista e la prospettiv­a liberale sul tema dell’immigrazio­ne, si pone l’interrogat­ivo su chi debba tracciare il limite: gli Stati nazionali o la Ue?

- di Carlo Melzi d’Eril Giulio Vigevani © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ci sono parole poco usate finché la cronaca o la Storia impongono di rispolvera­rle. Allora non solo le si usa, ma si discute della loro accezione, si operano distinguo, ci si confronta sulla latitudine del loro significat­o. L’immigrazio­ne di massa (l’invasione, secondo alcuni) ha riacceso l’interesse intorno al termine «confine».

Il tema è tra i più complessi, non solo perché impone di maneggiare diverse discipline, circostanz­a che dunque non consente risposte semplici, ma anche per la portata del fenomeno, davvero drammatica. E per una volta, il termine non è usato metaforica­mente.

Cominciamo con due domande legate tra loro: l’ingresso massiccio nel nostro territorio di appartenen­ti a culture diverse costituisc­e solo un problema o può diventare pure un’opportunit­à? E, in questa stessa ottica, l’idea di «confine» richiama maggiormen­te quella di «barriera» o quella di «soglia»? Confessiam­o subito che questa suggestion­e è presa in prestito da Massimo Cacciari. Quest’ultimo, riflettend­o a proposito di confini e migrazioni, propone l’alternativ­a tra «limen» e «limes». Il primo termine significa “porta” da cui per definizion­e si entra e si esce; il secondo indica viceversa una barriera, dunque, più nettamente, richiama una chiusura. Oggi, prosegue Cacciari, «siamo obbligati a decidere se il confine è limen o limes, soglia o barriera, luogo dove ci trinceriam­o o dove arriva lo sguardo, la volontà e il desiderio».

Proviamo a rispondere alla domanda mettendoci in due prospettiv­e, che sembrano essere quelle ora più comuni.

Il primo punto di vista, che un tempo si sarebbe detto reazionari­o e ora è definito populista, individua la – vera o presunta – identità di un popolo come un valore assoluto e perciò addita il migrante come un nemico dentro casa. L’immigrazio­ne, specie se di massa, è considerat­a una calamità: l’iniezione nel tessuto sociale di stranieri rende infatti instabile il popolo, elemento costitutiv­o dello Stato. Qui non c’è spazio per il diverso, di conseguenz­a è inevitabil­e la costruzion­e di muri che separino e difendano oppure, al massimo, una spinta forte all’assimilazi­one, ovvero all’annullamen­to delle differenze.

In una prospettiv­a liberale, individual­ista ed empirica, invece, non esiste alcuna ostilità preordinat­a nei confronti dello straniero. I nuovi individui potrebbero portare con sé nuove idee, nuove culture che arricchisc­ono il free market of ideas e la società. Per non dire, poi, che è proprio del saggio adattarsi e non opporsi a fenomeni non arginabili.

In tale ottica, dunque, il concetto di confine non si identifica con quello di muro, metafora dell’ostacolo posto nel tentativo di separare. Nemmeno però si può ipotizzare un mondo fatto di spazi senza frontiere. Il confine delimita un luogo definito (si chiami città, Stato o anche Unione europea) ma non impedisce l’osmosi tra chi sta dentro e chi sta fuori. Così, al concetto di «confine» si accompagna quello di «soglia», di ingresso di- sciplinato da regole.

Anzi, proseguend­o nell’immagine, per varcare un passaggio, usa chiedere permesso, che ben potrebbe essere concesso, a fronte dell’accettazio­ne di alcuni principi basilari di convivenza riguardo ai quali anche una società aperta e pluralista come ambisce ad essere la nostra, non può fare sconti. Anzitutto quello di tolleranza, ovvero il rispetto del pluralismo ideologico, l’accettazio­ne che tutte le credenze possano essere discusse e finanche dissacrate, soprattutt­o quando rappresent­ano tra l’altro un potere, sia esso politico, religioso o culturale. E poi, naturalmen­te, il principio di uguaglianz­a e il rispetto della dignità della persona.

Per fare qualche esempio tratto dalla cronaca: nessun divieto all’uso del burqini, purché sia una libera scelta di chi lo indossa, ma nessuna tolleranza per violenze o mortifica- zioni nei confronti della donna: ovviamente le mutilazion­i genitali ma a nostro avviso pure il burqa o il matrimonio poligamico, specie se consentito solo all’uomo.

Vi è poi un secondo interrogat­ivo: chi traccia il confine e soprattutt­o chi definisce i presuppost­i per il suo attraversa­mento?

Tale potere, oggetto di contesa tra gli Stati nazionali e l’Unione europea, ci sembra che debba essere attribuito principalm­ente a quest’ultima, benché forse gli istinti parrebbero condurre nella direzione opposta. Come ha ricordato Emma Bonino, da sempre nei momenti di crisi i cittadini si rivolgono alle istituzion­i loro più vicine, «illudendos­i tragicamen­te che possano risolvere problemi che hanno portata e cause internazio­nali». Vi è poi una ragione ancor più profonda per affidare all’Europa il compito di definire le frontiere: non dover arretrare rispetto alle libertà

fondamenta­li figlie proprio dell’integrazio­ne europea, in primis quelle di movimento e di libero scambio e, tutto sommato, progredire nella ricerca di una comune matrice culturale.

Prendendo a prestito alcune consideraz­ioni di Augusto Barbera, l’idea – che ci sentiamo di condivider­e – è che o riparte il processo di costruzion­e di una Europa politica o l’Europa sarà solo “u-topia”, non luogo, «malinconic­a zona di libero scambio». E se ciò avverrà, senza un soggetto forte e coeso, in grado di affrontare un evento epocale con la tranquilla forza dell’accoglienz­a, condiziona­ta al rispetto dei diritti, temiamo che a prevalere sarà la paura del diverso e, con essa, la logica nazionale delle barriere e dell’innalzamen­to di muri sempre più alti tra Stati che pure si erano proposti di costruire insieme un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa.

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premiata Questa foto, scattata da Warren Richardson per Reuters a Röszke, al confine tra Serbia e Ungheria, il 28 agosto 2015, ha vinto il World Press Photo

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