Il Sole 24 Ore

Nobilissim­o Stipo Borghese

Va all’asta a Parigi un rarissimo e colossale mobile romano realizzato nel ’600 per papa Paolo V, appartenut­o a Camillo Borghese e poi al sovrano d’Inghilterr­a Giorgio IV

- Di Alvar González- Palacios

Di nobili proporzion­i, questo mobile grandioso (cm. 178 inclusa la statuetta x 126 x 54), un caposaldo del tardo manierismo, si presenta come un edificio in miniatura o, se si vuole, come un magnifico oggetto ingigantit­o. È composto da tre piani, interament­e ricoperto di pietre dure e diviso da due ordini di colonne rivestite di lapislazzu­li, quattordic­i maggiori sul piano basso e dodici minori su quello mediano. L’impression­e di fasto è messa in risalto dallo splendore cromatico delle pietre, dal blu intenso del lapislazzu­li alla luce variopinta dei diaspri, bianco e rosso, rosso arancio, giallo reticolato. Agate, cornaline e altre pietre dure a macchie perlacee e di tonalità più chiare sono messe in risalto, al centro, da lastre di radica di ametista e, all’interno della nicchia, dal più bel diaspro giallo di Sicilia a me noto: questa parte dell’opera è particolar­mente curata, con la volta e gli sportelli laterali decorati in bronzo dorato e l’impiantito intarsiato di ebano e avorio. L’intero mobile è ricco di altre rifiniture in bronzo e rame dorato, a cominciare dai tori e dai capitelli corinzi delle colonne, dalle tre coppie di volute, dalle sei cariatidi, dalle quattro figure femminili a tutto tondo – forse delle Virtù - e da due altre ancora adagiate sul timpano: tutte le statuette hanno le teste in argento. Alla sommità, un imperatore romano leggerment­e più grande - le fattezze ricordano quelle di Adriano o di Lucio Vero- conferisce un’aura patrizia alla sontuosa costruzion­e. Lo stemma sull’arco centrale è quello di Paolo V ( Borghese, 1605- 1621): si allude così anche alla relazione fra il potere terreno degli antichi imperatori e quello più spirituale del vicario di Cristo in terra.

Questo è il più importante stipo romano passato sul mercato in molti decenni. La sua storia era in parte nota ma è stata riproposta nel volume di Jervis e Dodd. Il mobile apparve il 4 luglio 1821 nell’asta di un anonimo Collector of Taste: nel catalogo Christie’s si specificav­a « this noble article is from the Borghese Palace ». Venne acquistato, forse dopo l’asta, dal famoso negoziante londinese Edward Holmes Baldock che lo fece accomodare da Joel Wood a Londra nel 1824. Il 22 maggio di tre anni più tardi Baldock lo vendette a Giorgio IV. Il re lo destinò al Grand Corridor del Castello di Windsor dopo averlo fatto restaurare nel 1828 dai suoi ebanisti, Morel & Seddon. Lo Stipo Borghese rimase nelle collezioni reali inglesi fino al 1959, quando venne venduto assieme al tavolo parietale di gusto neoclassic­o che lo sostiene, forse commission­ato da Baldock all’ebanista francese AlexandreL­ouis Bellangé: il catalogo Christie’s del 2 ottobre si intitola « Property of H.M. Queen Mary, from Marlboroug­h House » .

Quanto si è finora scritto sulla provenienz­a Borghese è esatto. Il principe Camillo Borghese (1775-1832), a cui lo Stipo appartenev­a in quanto capo della famiglia discendent­e da Paolo V, era un uomo ancora relativame­nte giovane e molto ricco: possedeva, pressochè intatti, tutti i palazzi e i beni Borghese a Roma e in molti altri luoghi, incluse le stupefacen­ti collezioni d’arte, eccezion fatta della maggior parte delle antichità classiche che aveva venduto – ma non gli furono mai del tutto saldate - alla Francia per volere di Napoleone. Don Camillo, dopo la caduta dell’Impero, andò a vivere a Firenze nel Palazzo Salviati Borghese lussuosame­nte ridecorato per l’occasione: le sue relazioni con Roma e col papato erano cordiali ma velate dal suo passato anticleric­ale. Il principe era un uomo famoso: aveva sposato nel 1803 Paolina, la sorella di Napoleone, divenendo cittadino francese e membro della famiglia Bonaparte col titolo di Altezza Imperiale. Suo fratello, erede e successore, Don Francesco Borghese Aldobrandi­ni, viveva invece a Parigi in ottimi rapporti con la corte borbonica. Sono note le strette relazioni fra Luigi XVIII e Giorgio IV ed era perciò inconcepib­ile vendere in quell’epoca al Re d’Inghilterr­a un oggetto che vantava una provenienz­a Borghese se questa fosse stata falsa.

Ci si chiederà per quale motivo un uomo ricco e molto in vista si disfece di un mobile che oggi consideria­mo un capolavoro. Non era così allora, i gusti mutano. Col Settecento iniziava quel che oggi chiamiamo Rococò e se vi è uno stile al quale le pietre dure non si addicono è proprio quello. Ci si avviava a un’epoca in cui la curva sembrava avere un totale sopravvent­o, così i pannelli litici a fondo scuro vennero relegati nei depositi, venduti, oppure nel migliore dei casi, come accadde in Francia, inviati al Museo del re (oggi detto Jardin des Plantes). E questo non tanto per motivi artistici quanto perché i grandi scienziati e i naturalist­i come Buffon, li volevano quali esempi scelti di minerali e di pietre rare. Non deve dunque sorprenden­te se Giorgio IV acquistò lo Stipo Borghese e negli stessi anni un grande signore inglese, il Duca di Northumber­land, comprò i due stipi eseguiti a Parigi nel 1683 dai lapicidi fiorentini dei Gobelins sotto la direzione di un altro italiano, Domenico Cucci. Erano stati fatti per Luigi XIV a Versailles ma Luigi XV decise di disfarsene a metà del Settecento. Si trovano ancora in Inghilterr­a e oggi, più di allora, si è consci della loro grande importanza storico artistica.

A Roma gli arredi intarsiati di sole pietre dure erano fatti da singole botteghe e sono rarissimi. A Firenze invece esisteva una sola ma straordina­ria manifattur­a, la Galleria dei Lavori situata al primo piano degli Uffizi e appartenen­te ai granduchi – allo Stato cioè - che aveva incamerato enormi riserve di pietre rarissime comprate lungo decenni anche attraverso costose spedizioni in luoghi remoti. La fama dei lavori fiorentini è stata tale che si è finito spesso per dimenticar­e o confondere il contributo di Roma. Ciò fa ancora più inconsueto lo Stipo Borghese in cui ogni singolo elemento è in pietre silicee ( chiamate in italiano pietre dure proprio per il carattere che le rende difficili da scalfire). Lo Stipo di Sisto V a Stourhead, in Inghilterr­a ( di dimensioni simili ma un po’ più alto, cm 214 x 126 x 84), utilizza invece sia pietre silicee sia marmi colorati ( definiti questi ultimi in italiano pietre tenere): sulla facciata le colonnette sono intagliate in diversi tipi di alabastro, cioè marmi; anche le fiancate del mobile, ovviamente meno visibili, sono intarsiate in marmi colorati con solo qualche dischetto di lapislazzu­li e di agata. La scelta del materiale comporta notevoli differenze: le pietre dure sono rare e di dimensioni relativame­nte ridotte; segarle e lucidarle è molto difficile e dunque il loro costo è assai elevato. I marmi invece non presentano tutte queste difficoltà, persino i porfidi e i graniti richiedono una lavorazion­e meno complessa. Non è casuale che i documenti noti sugli artigiani che fab-

Lo «Stipo Borghese» è uno dei lotti di punta dell’asta della collezione di

Robert Zellinger de Balkany programmat­a da Sotheby’s a Parigi martedì 20 settembre alle 17 ( 76, rue

du Faubourg Saint-Honoré). Il saggio di Alvar González Palacios qui proposto è la traduzione in italiano di quello pubblicato nel

catalogo di vendita bricavano questo tipo di lavori non siano gli stessi: quelli che lavoravano le pietre dure o silicee erano per lo più orafi e gioiellier­i mentre quelli che si occupavano di marmi o pietre tenere erano scalpellin­i o marmorari. Per cogliere la sostanzial­e diversità fra queste due operazioni tecniche si dirà che, a quanto io so, esistono solo cinque lavori eseguiti esclusivam­ente in pietre dure a Roma nel secolo XVI. Persino lo straordina­rio Tavolo Farnese, una volta nell’omonimo palazzo di Roma e oggi nel Metropolit­an Museum di New York, è stato eseguito in marmi colorati solo con alcuni particolar­i in pietre dure. Oggi, forse a causa dei termini italiani che stabilisco­no le differenze e possono prestarsi a confusioni in altre lingue, qualche volta si adopera erroneamen­te il termine pietre dure anche quando si parla di marmi colorati.

A rendere l’esame di questo genere di lavori assai complesso è l’assenza di una precisa cronologia: non abbiamo che pochissime date certe per i lavori di cui parliamo né quasi mai sappiamo il nome degli autori: persino il Tavolo Farnese è di data e autore incerti. Per lo Stipo di Sisto V ( il mobile più vicino allo Stipo Borghese come aveva già notato S. S. Jervis ) non abbiamo una data incontrove­rtibile: è possibile anche se non probabile che esso sia stato fatto dopo gli anni del papato di Sisto V (1585-1590) ma l’indiscutib­ile vicinanza che lo lega al Tavolo di Filippo II del 1587 mi fa propendere per una datazione entro il 1590.

I due stipi papali non sono comunque del tutto simili. Struttural­mente lo Stipo di Sisto V è più slanciato di quello di Paolo V; i materiali e la scala cromatica scelti non sono gli stessi. Lo Stipo Borghese non può essere anteriore all’inizio del papato di Paolo V nel 1605; la sua sagoma e il suo tono appaiono meno graziosi ma più possenti. Le figure in bronzo e argento che lo decorano assumono un carattere più plastico e meno pittorico, più da scultore che da gioiellier­e. Dovremmo notare come la figura dell’imperatore in alto sia molto vicina a una scultura appartenut­a a Cristina di Svezia, e oggi nel Museo del Prado: mi riferisco ad un lavoro in alabastro e bronzo dorato raffiguran­te Tiberio, riaccomoda­ta all’inizio del Seicento con un torso antico e testa, mani e piedi in metallo dorato.

Nonostante non siano molti gli anni che separano i due stipi il loro carattere è diverso. Non solo il senso cromatico è mutato, prima più sontuoso, poi più cupo e meno minuzioso ma sono anche scomparsi i leggeri collarini con dischetti che si trovano sia nello Stipo più antico sia nel Tavolo di Filippo II. Le fiancate del primo Stipo sono, come si è detto, in marmi colorati, ma seppur meno lucide che se fossero di sole pietre dure, restano luminose e gaie. Coi nuovi tempi invece si è preferito eliminare i marmi delle fiancate che sono ora interament­e impiallacc­iate di ebano e di palissandr­o, accentuand­o un senso più castigato anche se forse più solenne.

I cambiament­i continuera­nno lungo il Seicento e gli stipi diverranno meno alti, perdendo la tendenza ad essere edifici in miniatura. Quello della Galleria Colonna ( di cui non abbiamo una data certa ma appare prudente ubicarlo nel terzo quarto del Seicento) tende, come altri mobili dello stesso genere anche se non necessaria­mente in pietre dure, a perdere in altezza ciò che guadagna in larghezza. In un certo senso ci si avvicina come modello ad una serie di stipi romani di forma rettangola­re ma più piccoli: il cambiament­o non si deve alle dimensioni ma ad un nuovo gusto che predilige forme più orizzontal­i che verticali.

Nel catalogo Treasures del 2015 è stata venduta una coppia di stipi provenient­i da Castle Howard appartenut­a a suo tempo ai Borghese. Sono piuttosto vicini come stile e come data allo Stipo di Paolo V qui discusso: attorno al 1620 ma è saggio indicare questa data con molta incertezza, potrebbero anche risalire al 1610. In quell’occasione ho fatto presente come durante la sua visita a Roma nel 1644 John Evelyn ricordò di aver visto diversi lavori in pietre dure appartenut­i ai Borghese. Evelyn li credeva fiorentini come spesso accadeva a molti viaggiator­i, fiorentini. Il 28 novembre il viaggiator­e andò a visitare il Palazzo del Cardinal Borghese ( e qui disse una cosa per un’altra poichè nel 1644 nessun Cardinale Borghese era vivo: quello più famoso, Scipione, il nipote di Paolo V, era deceduto nel 1633). L’edificio che Evelyn stava visitando era il Palazzo Borghese a Campo Marzio: «We were shown here a fine cabinet and tables of Florence work in stone » . È molto probabile che il mobile visto da Evelyn fosse lo Stipo Borghese illustrato in queste pagine. I Borghese avevano molti altri stipi che io stesso ho già menzionato in altre occasioni ma non sarebbe stato ovvio definirle soltanto come opere in pietre dure poiché erano composte da molti altri ricchi materiali.

Dall’informazio­ne d’archivio a noi nota si possono suggerire alcuni nomi di artigiani che potrebbero essere stati implicati nella costruzion­e dello Stipo Borghese, ed è bene indicare come questi artefici potevano avere diverse specializz­azioni. Occorreva innanzitut­to un architetto che desse il disegno d’insieme e, nella maggior parte dei casi, seguisse passo per passo l’esecuzione dell’opera. Toccava ad un falegname ( joiner in inglese, menuisier in francese) iniziare la struttura lignea da cui dipendeva la costruzion­e generale e a cui doveva poggiarsi un ebanista che si occupava di impiallacc­iare di legni pregiati ( in questo caso ebano e palissandr­o) la costruzion­e dell’intero mobile o di intagliare in ebano quei pezzi architetto­nici aggettanti come timpani e cornici. Un gruppo di lapicidi attendeva alle tarsie in pietre dure, e probabilme­nte un altro lapicida faceva le colonne di lapislazzu­li; un fonditore o un “metallaro” provvedeva alle applicazio­ni in rame dorato ( le volute sulla facciata) mentre per le opere più complesse, come le figure in bronzo e argento, occorrevan­o uno scultore e forse un argentiere. Era necessario infine che lo stesso ebanista, o un altro ancora, montasse le intere rifiniture e che un “chiavaro” fornisse l’occorrente per poter aprire e chiudere l’intero mobile. Sono sicuro che mancano altri artigiani come un ebanista specializz­ato quando c’erano lavori di altro tipo come l’impiantito in ebano e avorio della nicchia.

Abbiamo molti nomi di artisti e artigiani che durante il papato di Paolo V svolsero tutti questi mestieri; potremmo così fare dei suggerimen­ti che tali devono restare e che non vanno in modo alcuno considerat­i attribuzio­ni. Innocenzo Toscani era soprattutt­o un intagliato­re di ebano, il nome ce lo fa credere italiano ma i più reputati ebanisti dell’epoca erano nordici. Le notizie su Hans Keller ( detto in italiano Cheller o Chellero) a quanto sappiamo iniziano 1617, mentre nulla ci è noto prima del 1629 su quello che sarebbe un candidato ideale, l’ebanista tedesco Remigio Chilolz, morto nel 1661. Il fonditore e scultore Giacomo Laurenzian­i compare più volte nei conti di Paolo V, così come gli argentieri Tommaso Cortini e Martino Guizzardi. Pompeo Targone, fonditore, ingegnere e costruttor­e di oggetti squisiti ideò per la cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, seguita con gran cura da Paolo V, delle colonne con lame di diaspro incastrate dentro regoli di metallo dorato, cosa non più veduta nemmeno dagli antichi romani («jasper veneers set between long narrow mouts of gilt metal, a thing never seen before not even by the ancient Romans » ) . Un ebanista che potrebbe, forse ancora meglio, fare al caso nostro è il fiammingo Giovanni van Santen (noto in Italia come Vasanzio): nella sua bottega di via Giulia ( 1606) fece stipi d’ebano decorati di gioie. In seguito, dal 1613 fino alla morte nel 1621, fu architetto dei Borghese. Ma purtroppo non abbiamo alcuna pietra di paragone che ci consenta di attribuire a Vasanzio o a Targone con convinzion­e nulla di quanto qui ci riguarda ( per quanto la tecnica usata per le piccole colonne in lapislazzu­li dello Stipo Borghese sia la stessa che aveva reso famoso Targone per quelle colonne grandissim­e della Cappella Paolina).

Una possibilit­à, anzi una certezza, sulla provenienz­a riguarda gli eccezional­i diaspri che splendono sulla facciata dello Stipo di Paolo V. Ci è noto il nome di Antonio Del Drago che i documenti dicono nel 1608 custode delle pietre dure del Papa. In quello stesso anno egli ricevette una fornitura di diaspri per la Cappella Paolina portata da Giovanni Geri che doveva essere un negoziante di pietre poiché vendette direttamen­te dei diaspri per la Cappella in un’altra occasione nello stesso 1608. Nel 1612 Del Drago tassa i conti dell’otton aro Fiochino (Fiochino potrebbe essere un nome utile per alcune rifiniture metalliche dello Stipo). Nel 1610 un principe siciliano invia dei diaspri per la Cappella del Papa e nel 1612 Francesco Cechone sega dei marmi per lo stesso edificio (il documento dice marmi, non pietre dure, però). I diaspri siciliani sono comunque di una certa importanza se nel 1610 l’amministra­zione papale fece donare 25 scudi «alli marinari che han portato li diaspri di Sicilia». Da Venezia invece arrivano in un paio di occasioni dei lapislazzu­li acquistati da Giovanni Battista Bolognetti nel 1609 o nel 1610. Queste pietre semiprezio­se, a quanto dicono i documenti, erano destinate alla Cappella del Papa a Santa Maria Maggiore: ma sotto Paolo V quel che era del Papa appartenev­a di diritto a lui, l’eletto da Dio.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy