Una politica dell’offerta e la svolta produttività
Con il piano sull’Industria 4.0, presentato dal Governo, emerge la forza di una policy. La politica industriale funziona quando – senza produrre distorsioni – favorisce e provoca l’esplosione delle energie - magari ancora latenti – del tessuto produttivo. Di tutto il tessuto produttivo, non solo di una sua parte. La nuova politica industriale è efficace quando si inserisce in un contesto di politica dell’offerta, secondo una logica di lungo periodo in cui la produttività è un elemento sostanziale nella nuova natura delle imprese.
Questa regola aurea vale soprattutto in un Paese come l’Italia che ha spesso conosciuto la predominanza del respiro corto e la prevalenza del “particulare” (nelle forme di provvedimenti ad hoc o, anche in perfetta buona fede intellettuale, di misure squisitamente settoriali). Il piano sull’Industria 4.0, che ovviamente dovrà tradursi in misure concrete e coerenti nella legge di bilancio, ha il merito di compiere, sul piano strategico, una tripla innovazione: assegna un perimetro preciso alla versione italiana della nuova rivoluzione industriale, organizza in un frame organico misure vecchie e nuove non indugiando nell’abitudine di declassare a “roba da poco” quanto fatto dai predecessori e costruisce un orizzonte temporale di medio lungo periodo in cui tutti i provvedimenti possono esprimere i loro effetti. Misure a cui, peraltro, viene aggiunto anche il lievito del salario di produttività, elemento essenziale – invocato dal mondo delle imprese – per favorire la complessa metamorfosi del nostro capitalismo e contribuire così alla elaborazione di una buona politica dell’offerta.
I13 miliardi di euro di risorse pubbliche in 7 anni non sono pochi. E il metodo è valido. Nessun volo pindarico. Nessun scimmiottamento di Germania e Stati Uniti. Piuttosto, la coerente consistenza che unisce la fabbrica con il laboratorio, la linea produttiva classica con l’immaterialità dei processi: non a caso, una parte consistente dei 13 miliardi vanno a coprire da un lato il superammortamento sui beni strumentali e dall’altro l’iperammortamento al 250% sui beni digitali. Il Governo mostra così di avere colto la peculiarità del modello italiano, che sta faticosamente cercando un nuovo posizionamento nel capitalismo internazionale. Il capannone – luogo mitico e simbolico del nostro sviluppo - deve riqualificarsi, nel suo profilo manifatturiero più classico e nella sua propensione a interiorizzare la digitalizzazione dei processi aziendali. Allo stesso tempo, il rafforzamento del credito di imposta sulla ricerca evidenzia la consapevolezza che l’industria italiana deve compiere quell’upgrading che la competizione globale impone a tutti i sistemi manifatturieri occidentali. Un upgrading a cui mirano pure gli 1,3 miliardi di euro stanziati per il salario di produttività che – in un contesto di miglioramento organizzativo della fabbrica che passa attraverso nuove relazioni industriali – costituisce un passo avanti verso l’efficienza e la costruzione di una politica dell’offerta.
Con il superammortamento, l’iperammortamento e il credito di imposta sulla ricerca, l’imprenditore ha una serie di strumenti a cui ricorrere per riqualificare la fabbrica nella sua realtà materiale e nella sua dotazione tecnologica. E lo può fare in automatico con la leva fiscale, senza sottostare alle gabbie vetuste dei meccanismi di bando e senza imbattersi nell’ombra di un funzionario che decide se dare o no i soldi.
La fabbrica, però, ha un’anima. Ed è fatta dalle anime di chi ci lavora. Il salario di produttività – con le nuove forme di cooperazione fra imprenditori e sindacalisti, manager e dipendenti – serve anche a questo. Perciò nella fabbrica italiana che verrà - se i progetti del governo andranno in porto - ogni cosa si terrà.