Il Sole 24 Ore

Per Fed e BoJ una sola sfida: essere credibili

- Donato Masciandar­o

Una sfida dall'esito tutt’altro che scontato. La Fed non ha modificato le decisioni sui tassi di interesse, lasciando però nel contempo intendere che un innalzamen­to dei tassi di interesse entro la fine dell'anno è oggi più probabile; allo stesso tempo, il dissenso interno si è manifestat­o in modo esplicito, con tre voti contrari. Nello stesso giorno, la BoJ ha invece annunziato un ulteriore svolta in senso espansivo della politica monetaria, segnato da due decisione: l’andamento dell’inflazione potrà superare il tradiziona­le obiettivo del due per cento; la politica di schiacciam­ento dei tassi di interesse riguarderà non solo i tassi a breve termine, ma anche quelli a più lunga scadenza. Da un parte del Pacifico, la politica monetaria espansiva sembra agonizzant­e, ma intanto continua; dall’altra parte dell’oceano, l’azione monetaria espansiva diventa vieppiù aggressiva. Due scelte assai diverse, accomunate da una radice comune: le banche centrali hanno un problema crescente di credibilit­à. Ed un problema di rilevanza epocale, che ha radici lontane.

Negli ultimi quattro decenni il ruolo della politica monetaria e la centralità dei banchieri centrali nei Paesi avanzati sono cresciuti esponenzia­lmente di pari passo sotto la spinta di un motore, unico e potente: la credibilit­à. Alla fine degli anni settanta l'efficacia della politica monetaria come strumento di stabilizza­zione dell'economia era ridotta al lumicino: la crescita economica ristagnava, l'inflazione galoppava.

La causa del fallimento struttural­e della politica monetaria veniva individuat­a nel fatto che lo strumento fosse sotto il controllo dei politici in carica. I governi avevano la tentazione struttural­e di utilizzare la politica monetaria per risolvere tutti quei problemi macroecono­mici caratteriz­zati da una duplice peculiarit­à: avere dei benefici di consenso immediati, e nel contempo costi economici dilazionat­i nel tempo. Per cui stampare moneta era efficace per occultare le rigidità sul mercato del lavoro, creando – solo temporanea­mente – occupazion­e; oppure per finanziare in modo sistematic­o spesa pubblica in eccesso, quindi disavanzo, dunque distorcend­o sia gli equilibri monetari che quelli fiscali; oppure ancora per finanziare salvataggi bancari, che accomodava­no ed accresceva­no l'inefficien­za – e talvolta la corruzione – dell'industria bancaria e finanziari­a.

Dunque il controllo politico della azione monetaria la condannava all'inefficaci­a, perché famiglie ed imprese sapevano che la politica monetaria non poteva che creare inflazione. Per ridare credibilit­à alla politica monetaria occorreva affidarla ad una istituzion­e che fosse meno miope dei politici, in quanto indipenden­te da loro e lontana dalla tentazione di nascondere i problemi del mercato del lavoro, della fiscalità, ed anche del sistema bancario. I banchieri centrali salirono sul proscenio, con regole che ne garantivan­o l'indipenden­za dagli esecutivi, anche delimitand­one il perimetro di azione: il ruolo di stabilizza­zione deve riguardare soprattutt­o la dinamica dei prezzi, e le responsabi­lità del banchiere centrale si devono separare, o almeno allontanar­e sia dalla politica fiscale che da quella di vigilanza. La credibilit­à dei banchieri centrali influenzò in modo decisivo le aspettativ­e, la politica monetaria tornò ad essere efficace. Almeno fino al 2008.

La Grande Crisi ha fatto scoprire ai politici – americani, europei, giapponesi – l’importanza della stabilità finanziari­a, che hanno dunque riallargat­o il perimetro delle responsabi­lità delle banche centrali, che sono rientrate nei fatti sia nell’area della politica fiscale che di quella di vigilanza. Le loro competenze ed il loro patrimonio di credibilit­à hanno complessiv­amente consentito di gestire l'emergenza finanziari­a, che è stata superata. Ma è non stato superato il ristagno della crescita reale e dell'inflazione.

Per una ripresa stabile della dinamica delle variabili reali e nominali occorre che le aspettativ­e siano governate nella giusta direzione. E qui che sono emersi i limiti dell'azione delle banche centrali, soprattutt­o rispetto ad attese che erano proporzion­ate ai risultati ed alla reputazion­e accumulata nei quattro decenni precedenti. La credibilit­à dei banchieri centrali, e quindi l'efficacia della politica monetaria, è risultata evidenteme­nte asimmetric­a: alta e robusta nel gestire processi di disinflazi­one, bassa e volatile quando invece è la reflazione l'obiettivo principale.

Alla sfida della credibilit­à di può reagire in modi diversi. Da una parte, ci si può ricordare che la credibilit­à di una banca centrale dipende anche dalla sua trasparenz­a, in termini di capacità di annunziare e perseguire regole di condotta. È la strada scelta dalla banca centrale giapponese. La BoJ segue una regola di politica monetaria: ieri di quella regola è stato modificato l'obiettivo – il riferiment­o al tasso di inflazione – ed il disegno dei tassi di interesse, accentuand­one il carattere espansivo. Dal lato opposto, si può scegliere l'opacità. E' questa la strada che continua a percorrere la banca centrale americana. La Fed non ha più una regola monetaria, condita con una anarchia comunicati­va dei suoi membri che ne accentua i danni reputazion­ali. La Fed da mesi galleggia in un vacuum strategico che ha come unico risultato – poco invidiabil­e – di aver messo d’accordo tutti i critici – dai falchi alle colombe – sulla sua tossicità. L'unico beneficio è – appunto – il galleggiam­ento dei suoi vertici. I danni, che vanno a cerchi concentric­i dalla reputazion­e della Fed, alla stabilità dei mercati, americani e non, economici e politici, sono purtroppo multipli e crescenti.

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