La ripresa economica americana è fragile
Se i dilemmi della Fed tengono sulle spine i mercati, sono le incognite dell’economia reale a tenere in allarme gli americani. La ripresa, a sette anni e più dal suo inizio, rischia di invecchiare in una preoccupante mediocrità, prigioniera d’una “nuova normalità” che di normale ha sempre meno. Una condizione forse ormai cronica e portata alla luce, spietatamente, da statistiche che nell’ultimo mese hanno raffreddato l’ottimismo sotto un diluvio di dati deludenti: il settore manifatturiero, a detta dell’influente indice dei direttori degli acquisti delle imprese Ism, flirta con la recessione dopo una caduta a 49,4 da 52,6 e il parallelo indice dei servizi è scivolato ai minimi dal 2010. Le vendite al dettaglio sono reduci da una ritirata che ha interrotto la serie positiva iniziata a marzo. E il Prodotto interno lordo, lievitato a malapena dell’1% nella prima metà del 2016, potrebbe finire l’anno sotto il 2 per cento. Inferiore anche rispetto alla fragile media, per l’America, del 2,1% fatta segnare nel dopo-crisi. La stessa Fed di Atlanta, che segue passo per passo l’evoluzione del Pil, sta ridimensionando le stime di crescita per il terzo trimestre, da un rimbalzo al 3,6% ad un 2,9% giudicato roseo da molti analisti.
Il mercato del lavoro resta uno dei pilastri dell’espansione. La creazione di occupati ha viaggiato comunque, anche in un opaco agosto, nettamente oltre la soglia dei centomila nuovi impieghi che oggi basta a proteggere una bassa disoccupazione ufficiale, scesa al 4,9% e più che dimezzata dai picchi del 10% toccati nei giorni bui. Ma anche qui affiorano allarmi: la partecipazione alla forza lavoro, al 62,8%, langue ai minimi dagli anni Settanta. E nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni è all’88%, sotto i livelli precedenti la crisi finanziaria del 2007. Simile destino è condiviso dai salari, che nonostante leggeri recuperi, al passo annuale del 2,4%, hanno perso potere d'’acquisto rispetto al passato. Abba- stanza da mettere in dubbio l’ortodossia della curva di Phillips, che prescrive inevitabili spirali occupazione-prezzi e da nutrire i dubbi di politica monetaria della Fed. Le pressioni inflazionistiche giungono piuttosto da bruschi rincari della sanità e dei costi abitativi, cioè da fattori che frenano i consumi.
Persino un dato incoraggiante, un aumento record nei redditi mediani del 5,2% nel 2015, ha portato con sé ombre. Il miglioramento - che se sostenuto raddoppierebbe i redditi in 14 anni - è stato gonfiato da contributi straordinari, il calo dell’energia, mentre solo per un quinto è dovuto a schiarite occupazionali, facendo prevedere future stagnazioni. Ed è rimasto a macchia di leopardo, emarginando numerosi stati industriali e confermando il carattere diseguale della ripresa.
Nel clima incerto, la tradizionale ancora dell’economia - i consumi - vacilla. La nuova e imprevista flessione delle vendite al dettaglio dello 0,3% in agosto non può essere sottovalutata: questa spesa rappresenta due terzi dell’output. Meno sorprendente ma ugualmente sintomo di scarsa fiducia e debolezza è la continua latitanza di investimenti aziendali, con gli impegni in strutture tagliati del 2,5% nel trimestre scorso e cali nelle scorte e nell’immobiliare.
«L’economia americana sembra avere basi meno solide», ha commentato Mickey Levy nel riassumere le indicazioni “soft” su produzione industriale, investimenti, consumi e costruzioni. «L’inflazione core nei consumi personali (Pce), l’indicatore preferito dalla Fed, resta lontana dal 2% ideale e la disoccupazione rimane sopra il tasso oggi considerato naturale», ha aggiunto Kevin Logan di Hsbc. Un giudizio condiviso da Russell Silberston di Investe Asset Management, che sottolinea «un’espansione che viaggia all’1% e un’inflazione misurata dal Pce in discesa».