Il Sole 24 Ore

La geopolitic­a mondiale passa attraverso la Libia

- Di Alberto Negri

Per c h é l a L i b i a è i m p o r t a n t e p e r la geopolitic­a italiana e il Mediterran­eo? La caduta di Gheddafi nel 2011 ha rappresent­ato la maggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale: è stato perso il controllo delle risorse energetich­e, sono sfumati miliardi di euro di contratti (una perdita stimata 50 miliardi di dollari in 20 anni) e la sponda Sud è diventato il trampolino di lancio dei migranti, un flusso accompagna­to da timori di infiltrazi­oni terroriste. Non solo. L’Italia è stata costretta a bombardare il Colonnello: come ha spiegato l’ex ministro degli Esteri di allora, Franco Frattini, la Nato aveva inserito tra i bersagli da colpire anche i terminali dell’Eni.

I confronti a volte appaiono un po’ forzati e impietosi ma la Turchia di Erdogan ci ha messo più di un anno a concedere agli Stati Uniti la base di Incirlik contro l’Isis e solo con la clausola di far fuori i curdi siriani. E ora tutti zitti, dopo il fallito golpe del 15 luglio, davanti a qualunque nefandezza compiuta dal leader turco.

L’abbandono del nostro alleato è stato percepito nel mondo arabo non come il sostegno a un ipotetico processo democratic­o ma un cedimento struttural­e della nostra politica estera. Una dimostrazi­one delle conseguenz­e l’abbiamo avuta con il caso Regeni e nei rapporti con il generale egiziano Al Sisi, sponsor con Emirati, Francia e Russia del maresciall­o Khalifa Haftar, signore della guerra in Cirenaica e schierato contro la Tripolitan­ia dove si trovano i maggiori interessi italiani.

Forse negli eventi libici non c’era alternativ­a ma sta di fatto che l’Italia ha partecipat­o con migliaia di missioni aeree alla defenestra­zione di un dittatore che solo pochi mesi prima, il 30 agosto 2010, avevamo ricevuto a Roma con in pompa magna. Eventi che noi dimentichi­amo in fretta, gli altri no.

Non è consolator­io sottolinea­re come ha fatto un rapporto della commission­e Esteri del Parlamento britannico che Gran Bretagna e Francia, insieme agli americani, in Libia hanno combinato un disastro paragonabi­le all’Iraq: sappiamo bene che questi sono i nostri migliori alleati ma anche gli amici peggiori.

Blair e i francesi lo avevano dimo- gia di usare i jihadisti per abbattere Assad in Siria messa in pratica dalla Turchia con soldi sauditi, qatarini e l’appoggio di Usa, Francia e Gran Bretagna, i maggiori fornitori di armi delle monarchie arabe. Era questa la politica dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton pensata per difendere gli interessi Usa e tenere sotto pressione Russia e Iran. In queste manovre della Clinton l’11 settembre 2012 a Bengasi ci ha rimesso la pelle l’ambasciato­re Chris Stevens.

Gheddafi e Assad per le grandi potenze erano diventati moneta di scambio per rimediare agli scacchi delle primavere arabe. Follow the money and the oil, segui dove si dirigono denaro e petrolio: è una ricetta utile per capire il Medio Oriente. Poi naturalmen­te le cose non vanno come si vorrebbe. Nel 2013 Francia e Usa rinunciano a bombardare Assad, il governo libico affonda nella lotte tra fazioni, nasce il Califfato che si espande e ispira gli attentati in Europa, interviene la Russia, aggirata nel 2011 dalla risoluzion­e Onu sulla Libia, a far valere in Siria i suoi diritti di superpoten­za mentre i sauditi ora stanno perdendo persino la guerra contro i ribelli sciiti Houthi dello Yemen.

La Libia, dove l’Italia è andata piantare la bandierina a Misurata con una missione mista umanitaria-militare a sostegno della lotta all’Isis, potrebbe diventare adesso un’opportunit­à anche in questo quadro caotico creato dai nostri alleati. L’offensiva del maresciall­o Haftar nella Mezzaluna petrolifer­a ha restituito peso politico a Tobruk, oscurata dalla campagna militare di Misurata contro il Califfato.

Solo rimettendo sullo stesso piano Tobruk e Tripoli si può arrivare a un’intesa che inevitabil­mente ruota intorno al petrolio e al controllo del Lia, il fondo sovrano con 67 miliardi di dollari di investimen­ti (tra cui quote Eni e Unicredit). E anche i loro sponsor esterni - arabi turchi, occidental­i - hanno degli interessi economici e politici per mettersi d’accordo: ma prima deve finire l’era ambigua e devastante dei “pompieri incendiari” e dei venditori di fumo.

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