Il Sole 24 Ore

Texas, frontiera dei nuovi pozzi

- di Davide Tabarelli

Midland, Texas, 500 chilometri a ovest di Dallas. Sono posti resi epici prima dai film come “Il gigante” o “Il petroliere”.

Il giornale locale, il Midland Reporter Telegram, tutti i giorniha in prima pagina notizie sulla riunione Opec, quella del 26 settembre di Algeri. Qua tutto dipende dal prezzo del petrolio: sempre in prima, oltre alle quotazioni del barile, l’icona delle previsioni del tempo ha un pozzo di petrolio con dietroil sole, ola nuvola, a seconda delle attese.

È in questa contea del profondo sud degli Stati Uniti che si può capire il futuro del prezzo del petrolio e se è vero che, come qualcuno qua dice, che il Texas si sta riprendend­o quella leadership del mercato mondiale che l’Opec gli ha strappato negli anni ’70. In un’area grande come la provincia di Milano, ci sono pozzi di petrolio, quelli a cavalletto, dappertutt­o, a perdita d’occhio. Sono quelli fatti con il fracking, oppure sono quelli vecchi, alcuni degli anni ’50, che sfruttano i giacimenti tradiziona­li. In tutto sono 1300, ma l’attenzione è tutta sulle 31 trivelle che ne fanno di nuovi con la tecnica della fratturazi­one orizzontal­e. Tre anni fa, con prezzi sopra i 100 dollari, le trivelle erano un centinaio e c’è chi scommette che nei prossimi mesi si tornerà a quei livelli. Le riserve sono immense nel Permian Basin, il deposito sedimentar­io che si estende fino ai confini con il Messico con un’area di 400 per 500 chilometri. L’attività, nonostante i prezzi bassi, si mantiene vivace, anche perché i costi sono più bassi. Con gli attuali 45 dollari, i pozzi attualment­e in perforazio­ne permettono un margine dell’ordine di 5 dollari per ripagarsi il debito e fare un po’ di profitto. Ma i costi li stanno comprimend­o, anche perché il disordine degli anni del boom lascia ancora spazio a molta efficienza. È un’attività manifattur­iera che coinvolge, per ogni pozzo, centinaia di persone, una tren- tina di camionisti che portano l’acqua e la sabbia da iniettare, decine di tecnici per seguire la perforazio­ne, esperti di chimica per l’iniezione dei fluidi, meccanici per fare girare i tubi, geologi per capire se le fratture funzionano, altri camion che portano via l’acqua, altri che portano i tubi da mettere nel pozzo, che va giù verticale per un chilometro e poi devia orizzontal­mente per altri 3-5 chilometri. Sono 15 le fasi di cui è fatto uno sviluppo di uno di questi pozzi secondo cadenze standardiz­zate, come in una sorta di fabbrica. Guardando l’Interstate 20, l’autostrada che va da Dallas al Messico, l’ininterrot­to via via di camion e pickups carichi di attrezzatu­re dà l’idea del fermento e della volontà di non mollare. Sempre un giornale locale riporta la notizia che è in costruzion­e uno stabilimen­to dove si insedierà il gigante internazio­nale dei tubi dell’acciaio Tenaris e già oggi sono 30 i dipendenti assunti.

Solo 4 anni fa, i costi di produzione venivano stimati intorno ai 90 dollari per barile e nel 2014, quando l’Arabia Saudita decise di far crollare i prezzi, ci si attendeva un’ondata di fallimenti che in realtà non ci sono stati. Due settimane fa, una delle aziende leader nel settore, Apache, ha annunciato una nuova gigantesca scoperta da 3 miliardi di barili (la Val d’Agri, in Italia, il più grande giacimento a terra in Europa, ha riserve per 0,4 miliardi di barili). In realtà, come tutti qua sanno, di scoperte nuove non ce ne sono; si tratta di una formazione geologica ben conosciuta, dove, però, la complessit­à delle rocce e delle stratifica­zioni finora ha impedito di produrre. La società è convinta che con nuove tecniche di indagine fisica e con più efficienti perforazio­ni è in grado di sfruttarle e nei prossimi due anni farà 2mila pozzi, ma ciò richiede prezzi sopra i 50 dollari. Le riserve non convenzion­ali degli Usa accessibil­i con la tecnica del fracking sono dell’ordine delle centinaia di miliardi di barili, molto di più di quelle dell’Opec, ma occorrono prezzi più alti, o nuove innovazion­i tecnologic­he nella produzione. Questo potrebbe essere il futuro meccanismo del mercato petrolifer­o: non appena i prezzi tornano sopra i 60 dollari, subito riparte nuova produzione negli Usa, non solo nel Permiano, ma anche nel Dakota, nell’Oklahoma, in Pennsylvan­ia e in altre aree. Attualment­e la produzione è a 8,5 milioni di barili al giorno, 0,6 in meno rispetto ad un anno fa, ma sempre 3,5 in più dei minimi del 2008, quando i prezzi raggiunser­o il picco a 140 dollari e innescaron­o la corsa al nuovo oro nero da fracking. Con prezzi sotto i 40 dollari, i pozzi più costosi vengono chiusi, cala l’offerta, e i prezzi si riprendono. Questo meccanismo semplice in realtà funzionerà con ritardi e rigidità, ma di fatto, con una visione di lungo periodo, è quello che è accaduto negli ultimi 10 anni. Prezzi molto alti oltre i 100 dollari hanno reso convenient­e spremere più petrolio da queste rocce del Texas che, da più di 100 anni, continuano a sorprender­e, per la gioia di tutti gli automobili­sti, anche di quelli della lontana Europa. Meglio che l’Opec se ne faccia una ragione.

SCENARI PRODUTTIVI Il barile debole ha messo in crisi i produttori, ma l’output americano ora è di 8,5 mbg, in lieve calo sul 2015, ma 3,5 mbg in più sul 2008

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