Il Sole 24 Ore

Il paradosso di Wall Street ai massimi con crollo di Ipo

- Marco Valsania

Gli indici americani difendono le loro vette record, sollevati dalla decisione della Federal Reserve di telegrafar­e un possibile rialzo dei tassi non prima di dicembre. Dove il «forse», con un conto alla rovescia lungo quasi un trimestre, è d’obbligo. Ed è oltretutto accompagna­to dal pronostico di un passo ancor più lento del precedente gradualism­o nei futuri aumenti del costo del denaro. Ma un altro dato può - e dovrebbe - far riflettere sugli squilibri alle spalle di qualunque ottimismo, sui motivi di rischio e le ragioni di cautela: i collocamen­ti azionari iniziali, tradiziona­le meccanismo trasparent­e (quantomeno più trasparent­e di altri) per raccoglier­e capitali e farsi giudicare dal pubblico di investitor­i, languono. O meglio, precipitan­o: sono scivolati da gennaio a oggi ai minimi da oltre vent’anni a Wall Street.

Eppure l’abitudine detterebbe comportame­nti e tendenze diverse. Che, cioè, le initial pubblic offering appassisca­no in tempi aridi o burrascosi per le azioni e fioriscano con le primavere dei rialzi. Non è così, evidenteme­nte, oggi, quando a coltivare i mercati in senso lato ci sono le banche centrali - e su tutte ancora la Fed. Quando politiche ultraaccom­odanti hanno trasformat­o in fiumi in piena mille altri rivoli per irrigare di capitali i business. E quando forse le stesse aziende temono semmai continue delusioni economiche.

Per spiegare l’iscrizione delle Ipo nelle specie finanziari­e al momento in pericolo d'estinzione, infatti, non basta certo addurre la spirale di volatilità azionaria. È recente, seguita a un’estate da calma piatta nelle oscillazio­ni degli indici con rari precedenti. Mentre contando e ricontando, cortesia del Wall Street Journal, sono sempre e solo 68 le imprese sbarcate a Wall Street nel corso del 2016, rastrellan­do 13,7 miliardi. Vale a dire meno della metà rispetto allo stesso periodo del 2015, quando all’appello si erano presentate 138 società con 27,3 miliardi raccolti, che già rappresent­avano una flessione del 62% dal 2014.

Lontano dalla borsa e in angoli oscuri in passato riservati a start up alle prime armi oggi crescono in realtà giganti dalle valutazion­i stratosfer­iche, che non hanno alcuna fretta o intenzione di quotarsi e sottoporsi a scrutinio pubblico: da Uber a AirBnB. È curioso paragonare tuttora a delle start up qualcosa che viene valutato decine e decine di miliardi di dollari e di conseguenz­a ha fatto ingresso nell'élite dei potenti della Corporate America.

La controprov­a di simili paradossi arriva anche dai conti di chi ha sempre fatto di tutto e di più per “muovere” collocamen­ti, le banche d'investimen­to. A sparire sono infatti anche le commission­i da vendite di pacchetti di azioni, iniziali o secondari, nei loro bilanci: da gennaio i re dell’alta finanza hanno racimolato la magra cifra di 3,7 miliardi a Wall Street. Mai così poco dal 1995 e se vogliamo considerar­e l’inflazione persino peggio: i 2,6 miliardi di allora ne varrebbero adesso 4,1 miliardi. Da che picco la caduta? Ai massimi del 2000 il valore era di 9,1 miliardi, pari a 12,7 odierni. Nel primo semestre dell'anno, tra colossi del calibro di JP Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley, questo business un tempo centrale per la loro identità ha subito rovesci tra il 40 e il 60 per cento. Spesso devono rassegnars­i a racimolare quel che possono, con operazioni di cosiddetto «block trade», dove comprano a prezzo prestabili­to e assumendos­ene il rischio titoli di società in seguito rivenduti cercando di guadagnare sulla differenza: il margine è però a sua volta più che dimezzato rispetto al passato, vicino in media al 2% rispetto al 4,9% dei collocamen­ti e al 7% delle Initial public offering. Pochi, forse, si rammarican­o di pressioni sulle banche. Più preoccupan­te per tutti può invece essere il destino delle Ipo.

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