Il Sole 24 Ore

Rivalutazi­one quote, con la proroga superare le disparità

- Di Luca Miele

Con il progredire dei lavori per la definizion­e della legge di bilancio 2017 appare opportuno svolgere qualche consideraz­ione sulla norma che consente l’incremento del costo fiscale delle

partecipaz­ioni societarie detenute da persone fisiche. Si tratta di una disposizio­ne che, quasi senza soluzione di continuità, trova spazio nel nostro ordinament­o tributario da 15 anni e, pertanto, non suscitereb­be nessuna sorpresa l’ennesima proroga dell’efficacia temporale di una previsione che ha origine nell’articolo 5 della legge 448 del lontano 28 dicembre 2001.

La norma consente, mediante pagamento di una imposta sostitutiv­a, di “rivalutare” il costo fiscale delle partecipaz­ioni e di spendere tale maggior costo – sulla base del mero dato testuale della norma – ai soli fini della determinaz­ione delle plusvalenz­e derivanti dal trasferime­nto delle partecipaz­ioni ai sensi dell’articolo 67 del Tuir. La previsione ha, quindi, unicamente effetto con riguardo ai redditi diversi e non anche ai redditi di capitale. Non rileva in ipotesi di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale e liquidazio­ne della società; tutte fattispeci­e regolate dal comma 7 dell’articolo 47 del Tuir nell’ambito dei redditi di capitale.

In base a questo assetto normativo deriva che fenomeni giuridicam­ente distinti, ma economicam­ente analoghi, siano trattati in modo diverso, con risultati iniqui e senza alcuna reale giustifica­zione. Il caso che rende con più evidenza tale affermazio­ne è quello del recesso “tipico” che avviene mediante l’annullamen­to delle partecipaz­ioni del socio recedente. In tal caso, infatti, il differenzi­ale derivante dal recesso genera un reddito di capitale escluso dalla norma di favore, diversamen­te da quanto avviene nel recesso “atipico” effettuato mediante cessione della partecipaz­ione agli altri soci o a terzi.

Se si analizzano le due operazioni di recesso “tipico” e di cessione delle partecipaz­ioni a terzi risulta palese che non vi è alcuna diversità sul piano della capacità economica colpita da tassazione; e ciò rende irrazional­e un regime differenzi­ato. In entrambi i casi siamo in presenza di un disinvesti­mento patrimonia­le e il differenzi­ale assoggetta­to a imposizion­e è la risultante dell’investimen­to effettuato nella partecipaz­ione. Anche nel recesso “tipico”, infatti, il differenzi­ale rappresent­a la monetizzaz­ione delle plusvalenz­e e dell’avviamento latente nella partecipaz­ione (annullata) all’atto del disinvesti­mento; non si tratta di “utili” da partecipaz­ione tipicament­e percepiti in costanza di un investimen­to partecipat­ivo, ancorché si sia in presenza di redditi di capitale ai sensi dell’articolo 47 del Tuir. Peraltro, sia i redditi di capitale di cui al comma 7 del citato articolo 47 sia i redditi diversi realizzati mediante trasferime­nto di una partecipaz­ione subiscono la medesima imposizion­e; infatti, se trattasi di partecipaz­ione qualificat­a l’Irpef colpisce il 49,72% dell’imponibile mentre se la partecipaz­ione è non qualificat­a si applica l’imposta sostitutiv­a del 26%. Anche dal punto di vista delle “perdite” non vi sono differenze in quanto se è vero che ordinariam­ente i redditi di capitale possono essere solo positivi mentre i capital gains possono generare anche minusvalen­ze, tale differenza non sussiste nell’ambito della normativa sulla “rivalutazi­one” delle partecipaz­ioni in quanto non è consentito il realizzo di minusvalen­ze fiscalment­e rilevanti utilizzabi­li ai sensi dei commi 3 e 4 dell’articolo 68 del Tuir.

Va altresì osservato che questo assetto genera ulteriore incertezza quando si verte in materia di abuso/elusione e di verifica della sussistenz­a del vantaggio fiscale indebito e cioè di un vantaggio derivante dall’aggirament­o della ratio della norma o dei principi dell’ordinament­o. È già arduo individuar­e la ratio di una norma e la sua collocazio­ne nel sistema laddove la stessa avrebbe dovuto costituire una previ-

LA PROPOSTA Sarebbe opportuno estendere ai redditi di capitale la rilevanza dell’incremento del costo fiscale

sione temporanea e si è invece rilevata una norma di favore che coesiste da 15 anni con quella di tassazione ordinaria; ma anche a voler sorvolare su questo aspetto, asserire che la ratio della norma di favore è quella di riconoscer­ne gli effetti alla sola circolazio­ne delle partecipaz­ioni, rischia di etichettar­e come abusive tutte quelle operazioni di leverage cash out (senza distinzion­e alcuna) in cui si configura un recesso, cioè un fenomeno economicam­ente analogo alla cessione verso terzi.

In conclusion­e, appare opportuno – laddove il legislator­e intenda ulteriorme­nte “prorogare” gli effetti di questa normativa di favore o laddove ciò avvenga nel corso dell’iter parlamenta­re – che si tenga conto del fatto che non sembra esservi nessuna valenza sistematic­a in un assetto che ritiene rilevante l’incremento del costo fiscale della partecipaz­ione derivante dal pagamento dell’imposta sostitutiv­a ai soli fini del capital gain e non anche dei redditi di capitale.

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