Rivalutazione quote, con la proroga superare le disparità
Con il progredire dei lavori per la definizione della legge di bilancio 2017 appare opportuno svolgere qualche considerazione sulla norma che consente l’incremento del costo fiscale delle
partecipazioni societarie detenute da persone fisiche. Si tratta di una disposizione che, quasi senza soluzione di continuità, trova spazio nel nostro ordinamento tributario da 15 anni e, pertanto, non susciterebbe nessuna sorpresa l’ennesima proroga dell’efficacia temporale di una previsione che ha origine nell’articolo 5 della legge 448 del lontano 28 dicembre 2001.
La norma consente, mediante pagamento di una imposta sostitutiva, di “rivalutare” il costo fiscale delle partecipazioni e di spendere tale maggior costo – sulla base del mero dato testuale della norma – ai soli fini della determinazione delle plusvalenze derivanti dal trasferimento delle partecipazioni ai sensi dell’articolo 67 del Tuir. La previsione ha, quindi, unicamente effetto con riguardo ai redditi diversi e non anche ai redditi di capitale. Non rileva in ipotesi di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale e liquidazione della società; tutte fattispecie regolate dal comma 7 dell’articolo 47 del Tuir nell’ambito dei redditi di capitale.
In base a questo assetto normativo deriva che fenomeni giuridicamente distinti, ma economicamente analoghi, siano trattati in modo diverso, con risultati iniqui e senza alcuna reale giustificazione. Il caso che rende con più evidenza tale affermazione è quello del recesso “tipico” che avviene mediante l’annullamento delle partecipazioni del socio recedente. In tal caso, infatti, il differenziale derivante dal recesso genera un reddito di capitale escluso dalla norma di favore, diversamente da quanto avviene nel recesso “atipico” effettuato mediante cessione della partecipazione agli altri soci o a terzi.
Se si analizzano le due operazioni di recesso “tipico” e di cessione delle partecipazioni a terzi risulta palese che non vi è alcuna diversità sul piano della capacità economica colpita da tassazione; e ciò rende irrazionale un regime differenziato. In entrambi i casi siamo in presenza di un disinvestimento patrimoniale e il differenziale assoggettato a imposizione è la risultante dell’investimento effettuato nella partecipazione. Anche nel recesso “tipico”, infatti, il differenziale rappresenta la monetizzazione delle plusvalenze e dell’avviamento latente nella partecipazione (annullata) all’atto del disinvestimento; non si tratta di “utili” da partecipazione tipicamente percepiti in costanza di un investimento partecipativo, ancorché si sia in presenza di redditi di capitale ai sensi dell’articolo 47 del Tuir. Peraltro, sia i redditi di capitale di cui al comma 7 del citato articolo 47 sia i redditi diversi realizzati mediante trasferimento di una partecipazione subiscono la medesima imposizione; infatti, se trattasi di partecipazione qualificata l’Irpef colpisce il 49,72% dell’imponibile mentre se la partecipazione è non qualificata si applica l’imposta sostitutiva del 26%. Anche dal punto di vista delle “perdite” non vi sono differenze in quanto se è vero che ordinariamente i redditi di capitale possono essere solo positivi mentre i capital gains possono generare anche minusvalenze, tale differenza non sussiste nell’ambito della normativa sulla “rivalutazione” delle partecipazioni in quanto non è consentito il realizzo di minusvalenze fiscalmente rilevanti utilizzabili ai sensi dei commi 3 e 4 dell’articolo 68 del Tuir.
Va altresì osservato che questo assetto genera ulteriore incertezza quando si verte in materia di abuso/elusione e di verifica della sussistenza del vantaggio fiscale indebito e cioè di un vantaggio derivante dall’aggiramento della ratio della norma o dei principi dell’ordinamento. È già arduo individuare la ratio di una norma e la sua collocazione nel sistema laddove la stessa avrebbe dovuto costituire una previ-
LA PROPOSTA Sarebbe opportuno estendere ai redditi di capitale la rilevanza dell’incremento del costo fiscale
sione temporanea e si è invece rilevata una norma di favore che coesiste da 15 anni con quella di tassazione ordinaria; ma anche a voler sorvolare su questo aspetto, asserire che la ratio della norma di favore è quella di riconoscerne gli effetti alla sola circolazione delle partecipazioni, rischia di etichettare come abusive tutte quelle operazioni di leverage cash out (senza distinzione alcuna) in cui si configura un recesso, cioè un fenomeno economicamente analogo alla cessione verso terzi.
In conclusione, appare opportuno – laddove il legislatore intenda ulteriormente “prorogare” gli effetti di questa normativa di favore o laddove ciò avvenga nel corso dell’iter parlamentare – che si tenga conto del fatto che non sembra esservi nessuna valenza sistematica in un assetto che ritiene rilevante l’incremento del costo fiscale della partecipazione derivante dal pagamento dell’imposta sostitutiva ai soli fini del capital gain e non anche dei redditi di capitale.