Il Sole 24 Ore

La Formula 1 e il «rombo» sul web

- Marco Valsania

Dall’innocente «Cable Cowboy» al super-cattivo «Darth Vader», stando all'ex vicepresid­ente Al Gore. Oppure, forse più azzeccato, «Mad Max», l’avventurie­ro del futuro in una storica copertina della rivista Wired.

Con la fama, iniziata nei laboratori di ricerca Bell di AT&T e poi al comando del colosso dei cavi Tci poi rilevato da AT&T nel 1999, accumulato trofei. Ha superato Ted Turner come «latifondis­ta» d'America, con ranch e terreni per oltre 8.500 chilometri quadrati dal Colorado al New Mexico, dal Wyoming al Mainek. La sua filantropi­a lascia tracce altrettant­o indelebili: decine di milioni di dollari hanno finanziato centri a Yale e John Hopkins (ingegneria) e alla Colorado State University (ricerca sulle cellule staminali).

Ma rimane sulla frontiera dei mass media, nell'integrazio­ne di contenuto e piattaform­e di distribuzi­one, il suo disegno più ambizioso. Per anni ha duellato con Rupert Murdoch per la corona di magnate indiscusso del settore, spingendol­o nel 2004 ad adottare una «poison pill» per scoraggiar­e scalate al suo stesso impero: la battaglia si concluse con una tregua, con Malone che cedette a Murdoch un pacchetto del 16,3% accumulato nell'allora News Corp. in cambio dell'interesse nel gruppo satellitar­e DirectTv.

Di certo quella di Malone è, oggi come ieri, una scommessa ambiziosa tanto e più di quella del grande rivale. Negli ultimi anni è tornato alla ribalta con acquisizio­ni multimilia­rdarie su entrambe le sponde dell'Atlantico. Fuori dagli Stati Uniti agisce attraverso Liberty Global, il maggior gruppo al mondo di Tv e broadband con attività in oltre 30 paesi europei, latinoamer­icani e caraibici. Il colpo da maestro, nel 2013, fu la conquista di Virgin Media per 16 miliardi. L’altro suo braccio, in patria, è Liberty Media, reduce dalla combinazio­ne degli Studios Lions Gate e della television­e Starz e socio di controllo di Charter Communicat­ions, che ha rilevato Time Warner Cable nelle reti broadband. Sue sono la radio satellitar­e Sirius XM e la squadra di baseball Atlanta Braves.

L’avvento della Formula Uno, in questo portafogli­o, è ora l’exploit di più alto profilo e rischioso se non il più caro. Vuole far leva su uno sport popolare e redditizio, se meglio gestito e promosso sfruttando piattaform­e televisive e di social network per raggiunger­e nuove generazion­i di spettatori e accrescere la raccolta pubblicita­ria. Dal 2012 le gare hanno nuovamente fatto il loro ingresso negli Usa, interrompe­ndo cinque anni di assenza, con il circuito di Austin. I Gran Premi automobili­stici, però, portano con sé sfide non facili: il mercato statuniten­se si è finora rivelato ostico. Se la Formula Uno vanta gare in 21 paesi in cinque continenti, l'ultimo campione statuniten­se, Mario Andretti, vinse nel 1978, e gli occhi degli americani restano puntati sul circuito rivale Nascar. La audience globale è a sua volta in declino, a 425 milioni da 600 in sei anni.

«Ma la Formula Uno è uno dei principali marchi al mondo e il suo logo è all'altezza di Pepsi e Nike», assicura Alex Barr, gestore del team investimen­ti alternativ­i di Aberdeen Asset Management. Ciò che le serve, aggiunge, è una «formula» per il futuro. Quella fatta balenare da Malone: far sentire il rombo dei motori negli autodromi come su Internet.

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