I credit fund restano appesi al palo
Per i fondi esteri c’è il rischio di un iter farraginoso
Per l’avvio dei cosiddetti credit fund, ovvero fondi comuni che dovrebbero erogare crediti alle imprese, i tempi slittano. Il tanto atteso regolamento della Banca d’Italia è di là da venire. Come è noto, per estendere ulteriormente le opportunità alle imprese di accedere al credito, è stata ampliata la platea dei soggetti che possono offrire finanziamenti. Nella partita dovrebbero rientrare, oltre agli asset manager, anche le assicurazioni e le società di cartolarizzazione. L’interesse tra gli asset manager esteri è stato enorme tanto che il Governo stima che potrebbero arrivare alle imprese circa 40 miliardi annui da questi strumenti.
Da anni ormai per il superare il cosiddetto credit crunch, il Governo attraverso una serie di misure, in primis il DL Sviluppo del 2012 e poi gli altri interventi normativi successivi, ha messo in piedi una serie di strumenti per favorire l’accesso ai finanziamenti per le Pmi. In particolare, l’attenzione si è focalizzata sui fondi di credito diretto (direct lending funds, o credit funds in sen- so stretto) e i fondi minibond, strumenti che dovrebbero dar vita in concreto a una forma di finanza non bancaria, consentita nel nostro ordinamento e funzionale allo sviluppo di operatori specializzati capaci di affiancare l’intermediazione tradizionale, quella delle banche, nell’offerta di capitale alle piccole e medie imprese.
Tra gli altri strumenti rientrano anche i fondi di investimento europei a lungo termine, più noti come Eltif (European long-term investment funds), legittimati anche all’interno del nostro ordinamento (Regolamento comunitario n. 760/2015/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2015).
Questi sono caratterizzati dall’essere rivolti a fornire finanziamenti di lunga durata a progetti infrastrutturali di varia natura, a società non quotate, a piccole e medie imprese quotate che emettono strumenti rappresentativi di equity o strumenti di debito per i quali non esiste un «acquirente facilmente identificabile » , e diretti a generare proventi periodici e preservare la regolarità dei flussi di cassa, mantenendo un portafoglio diversificato di asset. Anch’essi possono concedere credito diretto, ma solo a certe condizioni: a favore di « un’impresa di portafoglio ammissibile» e con una scadenza non superiore al ciclo di vita dell’Eltif stesso.
Il 12 settembre scorso si è conclusa la consultazione della Banca d’Italia, ma gli esiti non sono ancora noti. «In relazione ai cosiddetti credit funds e in particolare all’auspicata apertura ai fondi basati nella Ue, la proposta della Banca d’Italia - segnala Romeo Battigaglia, partner dello studio l egale Simmons & Simmons - si muove nei ristretti margini di manovra previsti dal decreto del febbraio scorso (DL 18/2016). Come si ricorderà, quel decreto, con l’intento dichiarato di aprire ai fondi esteri l’attività di erogazione in Italia, in realtà assoggettava l’avvio di tale operatività a una preventiva notifica ed approvazione da parte della Banca d’Italia, corredata da documentazione ed attestazioni da parte della “home country” authority del fondo, quanto meno pleonastiche rispetto a soggetti che operano nell’ambito di dettagliate direttive comunitarie (nella fattispecie, la Aifmd)». Secondo l’esperto l’impressione resta dunque che, se non si provvederà a semplificare la relativa procedura, non saranno molti i fondi esteri a voler sottoporsi ad approvazione e a conseguente vigilanza anche del Paese ospitante (l’Italia) per poter erogare credito alle nostre imprese.
«Un’altra modifica che, ancora una volta, andrebbe nella direzione di ampliare le fonti di finanziamento alle imprese - conclude Battigaglia - ma che è al momento risulta “bloccata” nell’ambito del più ampio “decreto concorrenza”, è quella che consentirebbe a soggetti anche non intermediari finanziari o banche di acquistare crediti relativi ai finanziamenti già integralmente erogati. Purtroppo il decreto in questione è fermo alla discussione parlamentare da mesi » .