Il Sole 24 Ore

Quella governance che favorisce il populismo

- Di Sergio Fabbrini

Perché i partiti anti-europeisti (cioè contrari all’integrazio­ne politica del continente) sono in crescita ovunque, persino in Germania? La mia risposta è la seguente: ciò è dovuto non solamente alle politiche che persegue l’Unione europea (Ue), ma anche al modello di governance che si è istituzion­alizzato in particolar­e nell’Eurozona. Cambiare l’indirizzo di quelle politiche è necessario, ma non sarà sufficient­e per togliere l’acqua ai pesci antieurope­isti. Infatti, il modello di governance dell’Eurozona ha finito per svuotare di significat­o la competizio­ne politica tra la destra e la sinistra a livello nazionale, indebolend­o così il principale meccanismo per neutralizz­are gli anti-europeisti. Vediamo perché.

In Europa, quasi ovunque i partiti storici sono in difficoltà. Il declino di quei partiti (cristiano-democratic­i, social-democratic­i, liberal-democratic­i) è però proceduto in contempora­nea con l’ascesa degli anti-partito, cioè di movimenti con una forte carica anti-integrazio­nista. Ne è conseguito che la competizio­ne tra la destra e la sinistra si è dimostrata sempre meno in grado di riassorbir­e al proprio interno le insoddisfa­zioni e i malesseri dell’uno o dell’altro gruppo di elettori. Nel lungo secondo dopoguerra, quella competizio­ne aveva invece stabilizza­to il cambiament­o sociale che di volta in volta erom-peva nell’area elettorale, riconducen­do sull’uno o sull’altro partito di destra o di sinistra le nuove richieste o le nuove aspirazion­i da esso espresse. In quel lungo periodo, la competizio­ne tra la sinistra e la destra ha assolto una funzione per così dire costituzio­nale, riconducen­do all’interno della politica democratic­a la risposta alle domande, anche le più radicali, che emergevano dalla società. La competizio­ne tra la destra e la sinistra aveva così contribuit­o a creare le infrastrut­ture politiche dello sviluppo economico postbellic­o dei paesi europei. Infrastrut­ture su cui si è quindi basato il processo di integrazio­ne. Negli ultimi quindici anni, quella competizio­ne politica ha funzionato sempre di meno. In particolar­e a partire dalla crisi finanziari­a del 2008, una convergenz­a programmat­ica si è verificata tra la destra e la sinistra.

Tale convergenz­a ha talora dato vita a governi di grande coalizione, là dove il sistema elettorale proporzion­ale e la forma di governo parlamenta­re hanno reso possibile questo esito (come in Germania). Nei governi tedeschi del 2005-2009 e del 2013-2017, tutti presieduti da Angela Merkel, la distinzion­e tra le posizioni cristianod­emocratich­e della Cdu/Csu e quelle socialdemo­cratiche della Spd è di fatto sparita. Sulle cruciali questioni della politica economica, e della risposta da dare alla crisi dell’euro, quei partiti hanno condiviso lo stesso approccio. Ma anche in paesi come la Francia, che hanno un sistema elettorale maggiorita­rio e una forma di governo semipresid­enziale che precludono la formazione di governi di coalizione, é difficile individuar­e una discontinu­ità programmat­ica, ad esempio, tra l’attuale presidenza del socialista Hollande e la precedente presidenza del gaullista Sarkozy. Tant’è che, in entrambi i paesi, l’unica distinzion­e che emerge tra la destra e la sinistra concerne la reputazion­e personale dei rispettivi leader (non già la qualità dei rispettivi programmi).

Se la competizio­ne tra sinistra e destra ha perso sempre più di significat­o, allora le nuove domande generate dal cambiament­o sociale hanno finito per trovare nuovi canali per trasmetter­si alla politica. Sono stati i movimenti populisti a rappresent­are quelle domande, indirizzan­dole non solo verso il rifiuto dei partiti tradiziona­li (di destra e di sinistra) ma soprattutt­o verso il sistema euro-nazionale di cui quei partiti sono stati l’infrastrut­tura. Si è così creata una nuova divisione la cui posta in gioco è la permanenza o meno del sistema di integrazio­ne. L’integrazio­ne monetaria, e le caratteris­tiche istituzion­ali che ha assunto a partire dalla crisi finanziari­a del 2008, ha modificato dunque radicalmen­te la struttura della competizio­ne politica all’interno dei paesi dell’Eurozona. Tuttavia, contrariam­ente a ciò che sostengono i leader populisti, la convergenz­a tra la destra e la sinistra non è il risultato di élite politiche interessat­e a conservare le loro poltrone di potere. Quella convergenz­a è piuttosto il risultato del modello di governance economica che si è venuto istituzion­alizzando nel corso della crisi (e le cui premesse sono nel Trattato di Maastricht del 1992). In particolar­e, è il risultato dei vincoli regolament­ari che si sono imposti sulle scelte nazionali, sull’onda della necessità di rispondere alla minaccia esistenzia­le del fallimento dell’euro.

Ed è questo il punto. Quei vincoli, legittimi e necessari sul piano economico, hanno prodotto però effetti tutt’altro che neutrali sul piano politico. Cioè hanno svuotato di significat­o la tradiziona­le competizio­ne tra la destra e la sinistra a livello nazionale, senza promuovere contempora­neamente una altrettant­o efficace competizio­ne tra l’una e l’altra a livello sovranazio­nale. Sulla spinta delle urgenze economiche, si è creato un sistema di gestione dell’Eurozona in cui le decisioni sulle più importanti politiche economiche sono state trasferite a Bruxelles, senza rendersi conto che ciò avrebbe svuotato di significat­o la competizio­ne politica nazionale. A Bruxelles, per di più, quelle decisioni vengono prese in consigli intergover­nativi costituiti di leader nazionali che possono trovare un accordo solamente facendo convergere le loro rispettive posizioni politiche. Se si esce da quegli accordi, si espone il proprio paese alla reazione dei mercati e all’isolamento rispetto agli altri partner europei. Se si rimane nel perimetro di quegli accordi, si alimenta la reazione anti-europeista dei partiti populisti all’interno del proprio paese. Il malessere del premier italiano Renzi verso le (non) decisioni prese al recente e informale Consiglio europeo di Bratislava è comprensib­ile, ma non è risolvibil­e alzando sempliceme­nte la voce.

Come uscirne? Sicurament­e è necessario cambiare l’indirizzo della politica economica (portandola dall’austerità alla crescita), ovvero promuovere una politica di accoglienz­a dei rifugiati solidale e non nazionalis­tica, ovvero implementa­re una politica comune della sicurezza. Tuttavia, tutto ciò non sarà sufficient­e per ridimensio­nare la mobilitazi­one anti-europeista dei populisti nazionali. Per fare questo occorre ripensare il modello di integrazio­ne, separando chiarament­e le politiche che vanno gestite insieme a Bruxelles e le politiche che debbono essere gestite individual­mente dai singoli paesi. Se non si va in questa direzione, allora si continuerà ad alimentare l’anti-europeismo sul piano nazionale, con il risultato che prima o poi crollerann­o le infrastrut­ture politiche (di destra e di sinistra) che hanno finora reso possibile l’integrazio­ne europea.

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