Il Sole 24 Ore

Il cigno nero Trump e l’America smarrita

- Di Carlo Bastasin

Mancano poche ore al dibattito tra Trump e Clinton e gli oracoli sono ammutoliti. Mi trovo a porte chiuse a discutere con i migliori analisti politici e sondaggist­i di Washington. Sono superstar del teatro politico della capitale, eppure in queste ore sembrano essersi smarriti in un labirinto ermetico. A bassa voce dicono che Hillary dovrebbe vincere, i loro sondaggi danno all’ex segretario di Stato dal 48 al 55% dei voti e un margine molto confortevo­le sui collegi. Ma il dibattito di domani può trasformar­si in un ring a luci spente dove i due contendent­i potrebbero picchiarsi alla cieca. O al contrario, basterebbe che Trump si dimostrass­e per due ore meno inidoneo di quanto non sia sembrato finora, per convincere il 3-5% di elettori arrabbiati e sprezzanti a votare quello che definiscon­o l’ABC della politica, (Anything But Clinton): tutto tranne Clinton.

Gli oracoli sembrano umiliati per essere stati colti di sorpresa da quelli che definiscon­o «cambiament­i rivoluzion­ari» nella società americana. Donald Trump è in gergo un “cigno nero”, un accidente imprevedib­ile. Ma i sentimenti a cui la sua personalit­à incontroll­abile sta dando voce ribollono da anni e rivelano un Paese diverso da quello che tutti conoscevan­o. In tanto disorienta­mento, la scelta del leader e il ruolo dei poteri pubblici che ad esso corrispond­eranno non è mai stata tanto importante per il futuro dell’Occidente.

L’America che era rimasta senza voce è nel distretto del tabacco che sta scomparend­o in Kentucky, o tra le montagne carbonifer­e del West Virginia e dei monti Appalachi, o nei distretti dell’Ohio dove solo un lavoratore su quattro si sente al riparo dall’automazion­e. Lì si avverte l’impatto sull’elettorato bianco della rivoluzion­e in corso. Tecnologia, nuove energie e globalizza­zione hanno lo stesso effetto sulla produttivi­tà della rivoluzion­e industrial­e di cento anni fa, ma anche lo stesso impatto sulla disuguagli­anza. Con una sostanzial­e differenza: nel passaggio dall’agricoltur­a all’industria, Roosevelt e Wilson inventaron­o il sistema scolastico superiore, l’antitrust e le tutele sociali. Poi venne il New Deal. Oggi, al tempo dell’era digitale, lo Stato non sa quale risposta dare.

Un campione di cittadini interpella­ti restituisc­e l’immagine di un Paese spaccato, tranne in una cosa. Una metà è rassegnata a essere perdente nella trasformaz­ione in corso; l’altra metà invece, pur avendo un lavoro, trascorre ogni sera alcune ore su internet alla ricerca di un posto migliore o di un corso di formazione. Rassegnati e propositiv­i hanno però una cosa in comune: si chiedono, dov’è lo Stato, perché sono solo nel mezzo di questa rivoluzion­e? Così, la fiducia nel governo e nelle istituzion­i pubbliche è calata in pochi anni al 20%. È il tempo dell’isolamento. E quindi dell’anti-politica.

Ma sottostant­i all’economia, muovono fenomeni ancora più profondi, che il termine “demografic­i” addolcisce rispetto alla realtà di profonde divisioni etniche e di classe che un sociologo conservato­re, del tutto isolato, quattro anni fa aveva già preconizza­to come laceranti. Ora ci siamo: non sono diversi solo i redditi e le aree di residenza, ma il grado di scolarità e la selezione del partner per qualità o merito che poi influenza la progenie, con i destini dei figli di madri sole e povere segnati dall’inizio. Cambiano due pilastri della società americana: l’attitudine verso la famiglia e verso la religione. Il 40% degli americani ancora frequenta una chiesa regolarmen­te, ma il grado di secolarizz­azione è in così forte aumento che il tradiziona­le consenso delle buone intenzioni, che le comunità americane coltivavan­o ritrovando­si insieme ogni domenica attorno alle scritture, sta rapidament­e lasciando il posto al consenso delle cattive intenzioni, su cui prosperano l’informazio­ne televisiva e quella informatic­a: senso di perdita, tradimento, vittimismo. Una specie di religione negativa che non promette salvazione ma dannazione, con un proprio linguaggio irrazional­e e divisivo che mette in questione l’identità multicultu­rale sulla cui base l’idea americana narrava se stessa.

Due terzi degli americani - una larga maggioranz­a anche nella base degli elettori democratic­i - sono convinti che il Paese stia andando nella direzione sbagliata. Al presidente Obama riconoscon­o di aver fatto miracoli per uscire dalla crisi del 2008, ma gli imputano di non affrontare la stagnazion­e di lungo termine che sta colpendo la classe media. L’amministra­zione sostiene che ci voglia tempo, come era successo negli anni Novanta a Clinton prima di veder riconosciu­ti gli effetti delle riforme. Ma i focus group sono molto chiari: ogni volta che viene chiesto di commentare l’evidenza di otto milioni di posti di lavoro creati in questi anni, gli interpella­ti diventano seriamente aggressivi. Rispondono che sono posti malpagati e precari che sostituisc­ono quelli vecchi ma con minori garanzie; o che sono più posti a tempo parziale che un singolo lavoratore è costretto a mettere insieme per avere lo stesso stipendio di prima. Scompare uno strumento fondamenta­le nella politica economica tradiziona­le, la curva di Phillips che descriveva l’aumento dei salari all’avvicinars­i della piena occupazion­e. Privata delle difese della politica economica tradiziona­le, la classe lavoratric­e sente la mancanza anche di una società civile che compensi il vuoto lasciato dalla promessa di crescente benessere individual­e. La fiducia nel sistema capitalist­ico non può resistere a lungo in queste condizioni. Non a caso entrambi i candidati, pur con accenti diversi, hanno già abbandonat­o l’agenda degli accordi transocean­ici sul libero commercio.

La necessità del cambiament­o non gioca a favore di Hillary, che può incarnare tutto tranne la catarsi. Così Trump alza i toni, vuole tasse del 45% sull’import cinese e del 35% su quello messicano. Fa leva su nostalgia e frustrazio­ne con uno slogan in cui invita a restituire forza all’America, non come faro della società aperta, ma con una visione del mondo per fortezze contrappos­te, realistica cento anni fa. D’altronde il numero dei repubblica­ni che si definisce conservato­re o moderato è in calo drastico. Quasi tutti si riconoscon­o furiosi e indignati. Trump ne ha sfruttato la rabbia, a costo di inimicarsi le minoranze messicane e nere. Dal 1966 ogni votazione vede calare dell’1-2% la quota di elettori “bianchi” sul totale. Un candidato repubblica­no può puntare al 15-20% dell’elettorato latinoamer­icano o nero, ma per vincere dovrebbe assicurars­i addirittur­a il 70% dei bianchi. Per questo il partito repubblica­no, dopo aver puntato su un candidato ispanico, si è rassegnato a seguire Trump, vendicator­e delle prerogativ­e dei bianchi. Un gioco che non ha un prezzo troppo alto: pensano che, se anche vincesse, Hillary potrebbe durare soltanto quattro anni, per ragioni di salute e di età.

Nel frattempo però il Paese sarà cambiato di nuovo. I giovani “millennial­s” si stanno muovendo verso le grandi città con i loro valori multicultu­rali; un matrimonio su sei è interetnic­o; le donne si adattano più degli uomini ai nuovi lavori. Tutto sembra giocare contro i repubblica­ni e a favore del nuovo modello democratic­o che sta prendendo forma in California: sviluppo tecnologic­o e contrasto delle disuguagli­anze, immigrazio­ne e forte aumento dei salari minimi. Prima o poi anche lo Stato dovrà imparare a reinventar­e il proprio ruolo, dalla società industrial­e a quella digitale, per ridare senso al comandamen­to tradito della società americana: «Tutti sono uguali e possono avere successo, se lavorano duro e rispettano le regole».

Siamo alla vigilia di un’inevitabil­e trasformaz­ione nel capitalism­o e nel ruolo dello Stato. Ma nello spartiacqu­e di questo cambio d’epoca, il “cigno nero” può ancora deragliare il voto di novembre. Uno dei più importanti nella storia del mondo occidental­e.

UNA SOCIETÀ CHE CAMBIA Il tycoon è un accidente imprevedib­ile, ma dà voce ai sentimenti di un Paese che si è trasformat­o

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