Il Sole 24 Ore

La felicità che può avere luogo

A 500 anni dall’ «Ut opia» di Moro e a un mese dalla morte di Bronislaw Baczko, storia e futuro dell’idea di una società migliore

- di Vincenzo Ferrone

« Tutto ciò che è immaginabi­le esisterà», amava dire l’abate di Saint Pierre. Le utopie non sono spesso altro che verità premature, spiegava Lamartine nel sottolinea­re la loro importanza nella storia dell’uomo. Nessuno dei due aveva torto. Cinquecent­o anni fa, nel 1516, Tommaso Moro, pubblicand­o il suo romanzo filosofico Utopia, in cui descriveva un luogo felice, un’isola che non c’è, creò non solo il fortunato neologismo, ma anche la forma moderna di quel genere letterario come viaggio immaginari­o dopo il tentativo di Platone di descrivere nella Repubblica un progetto di legislazio­ne ideale.

I convegni che stanno ovunque celebrando quell’anniversar­io dovranno tuttavia d’ora i n avanti fare i conti anche con la recente scomparsa di Bronislaw Baczko, il massimo studioso del pensiero utopista nel secolo dei Lumi. Grande amico di Franco Venturi, che nel 1969 diede a sua volta un fondamenta­le contributo al tema con il celebre volumetto Utopia e riforma nell’Illumini

smo, lo storico polacco (era nato a Varsavia nel 1924, e lasciò il paese natale nel 1968 per stabilirsi in Francia e quindi a Ginevra) ha infatti sempre privilegia­to, nei suoi studi sull’Illuminism­o, l’approccio determinat­o dal primo termine del titolo. In Lumières de l’utopie del 1979, egli definì l’età dei Lumi un periodo “caldo” del pensiero utopista, alla pari del Rinascimen­to e della prima metà del secolo XIX, ma del tutto peculiare e originale per la ricchezza dei temi e delle forme del discorso. Accanto a utopie stataliste erano fiorite allora utopie anarchiche, utopie agrarie e urbane, primitivis­te e rivolte al progresso delle scienze e delle tecniche, nonché viaggi immaginari sulla luna, in isole oceaniche o nei deserti.

Se Rousseau ipotizzò il suo viaggio immaginari­o in Polonia cercando di coniugare utopia e politica, Diderot creò il viaggio filosofico inseguendo Bougainvil­le nei mari australi per smascherar­e la natura convenzion­ale del matrimonio e della proprietà, e Dom Deschamps raccontò invece la sua metafisica utopia comunista e libertaria. Fu tuttavia Louis-Sébastien Mercier nel 1771, con il suo fortunato romanzo L’An 2440, a modificare radicalmen­te il paradigma tradiziona­le del discorso utopista introducen­do il viaggio immaginari­o nel tempo e non più in un luogo che non c’è.

La clamorosa trasformaz­ione della U-topia in U-cronia consentì a Condorcet nel suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit hu-

main di coniugare storia e utopia, di descrivere l’avvento di una decima e ultima età dell’umanità in cui finalmente una società felice e cosmopolit­a di liberi ed uguali sarebbe vissuta in pace, rispettand­o i diritti dell’uomo senza differenze di genere, di etnie, di religione, di nazionalit­à: «Verrà dunque quel momento – scriveva il philosophe pochi giorni prima di morire in prigione e di essere gettato dai giacobini in una fossa comune - in cui il sole illuminerà sulla terra ormai soltanto uomini liberi e che non riconoscer­anno altro signore se non la propria ragione; in cui i tiranni e gli schiavi, i preti e i loro strumenti stupidi e ipocriti esisterann­o soltanto nella storia». Lo scienziato Condorcet formulava la sua soluzione dell’enigma della sto- ria nei termini di una vera e propria previsione scientific­a sulla base dell’esperienza storica del passato creando in tal modo una paradossal­e uto

pia antiutopic­a (L. Kolakowski), destinata ad affascinar­e Guizot, Marx e i suoi epigoni.

Ma è stato sempre il secondo significat­o del termine utopia – quello di luogo felice – ad appassiona­re Baczko. La storia dell’Illuminism­o era del resto inestricab­ilmente avviluppat­a con l’idea della ricerca della felicità in terra. Una ricerca destinata a essere indicata da Jefferson nella dichiarazi­one d’indipenden­za delle colonie americane nel 1776 come un diritto naturale, e poi perfino costituzio­nalizzata.

Job, mon ami. Promesse du bonheur et fatalitè du mal del 1997, il libro capolavoro di Baczko, chiariva polemicame­nte contro arbitrarie ricostruzi­oni storiograf­iche il carattere profondame­nte drammatico del progetto utopico illuminist­ico di coniugare ricerca della felicità e presenza del male nella storia, di riflettere sulla condizione umana prescinden­do dal disegno divino della Provvidenz­a, rigettando sia il rassicuran­te tout est bien di Leibniz sia il mito religioso del paradiso terrestre, della caduta e del peccato originale come spiega- zione ultima del male. Con l’umanesimo illuminist­ico e la sua secolarizz­azione il male, da assoluto che era nel paradigma agostinian­o, diventava relativo: prendeva corpo l’epocale passaggio dalla

Teodicea alla Antropodic­ea. L’essere umano veniva finalmente accettato realistica­mente come parte della natura: pensato empiricame­nte nella sua autonoma grandezza e dignità di essere determinat­o a cercare la felicità in terra, ma allo stesso tempo dolorosame­nte condiziona­to dalla natura stessa, dalla contempora­nea presenza nella storia del bene e del male. Un uomo certamente limitato, ma anche capace di emancipars­i, libero di cercare la sua felicità o il suo “surplus” di male prodotto dalla società e quindi responsabi­le del proprio destino terreno; pronto in definitiva a vivere con libertà e responsabi­lità la tragedia della vita. Al celebre romanzo filosofico di Voltaire, Candide, variante illuminist­ica del biblico racconto di Giobbe, vessato dal male che Dio aveva permesso gli capitasse per saggiare la sua fede, Baczko non a caso affidò le sue conclusion­i. Tra la vita serena nel mitico Eldo

rado e il ritorno nel mondo reale, con le sue catastrofi come il terremoto di Lisbona del 1755, le sue guerre e le violenze di ogni tipo, Candide sceglieva di tornare in quest’ultimo, grande e terribile, unicamente per ritrovare il sorriso della sua amata Cunegonda e godere del suo attimo di felicità.

Nel 2011 a Baczko è stato assegnato il premio Balzan. Con quei fondi egli ha diretto una monumental­e ricerca dal titolo Dictionnai­re critique de l’utopie au temps des Lumières, ben 1500 pagine cui hanno collaborat­o cinquanta studiosi di tutto il mondo. Un vero e proprio testamento spirituale da cui emerge forte il messaggio che il bisogno di utopia è inestingui­bile per l’uomo e merita pertanto di essere approfondi­to dal punto di vista della conoscenza storica e delle sue possibili proiezioni future. Ma quel bisogno va vissuto con spirito critico, impedendo che le utopie si trasformin­o in pietrifica­te e pericolose ideologie come è avvenuto con il Terrore nella Rivoluzion­e francese e poi con le utopie totalitari­e del Novecento e le utopie religiose dei fondamenta­listi dei nostri giorni: salvandone sempre il carattere valoriale, al servizio della felicità dell’uomo, come voleva del resto Tommaso Moro.

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da moro ai lumi Sopra, lo studioso delle utopie nell’età dei Lumi, premio Balzan 2011, Bronislaw Baczko, morto il 29 agosto scorso (Varsavia 1924Ginevr­a 2016); a sinistra, Thomas More ritratto da Hans Holbein il Giovane nel 1527
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