Il Sole 24 Ore

Etica e design dell’informazio­ne nell’era post-digitale

Nell’era post-digitale, usare o progettare in modo scorretto le grandi basi di conoscenze può causare danni irreversib­ili

- di Andrea Resmini

a Il futuro che i media, cinema, tv, fumetti, ci presentano quotidiana­mente è un florilegio di luminescen­ze in blu e di interfacce olografich­e. Magico, sorprenden­te, confortant­e.

Progettare è di per sé pensare e realizzare qualcosa che ancora non esiste: il fascino che il nuovo e quanto è ancora a venire esercitano sul mondo del design non è certo sorprenden­te. Non è nemmeno un fenomeno recente: Marinetti, le parole in libertà e il Futurismo dell’elettricit­à e della velocità hanno cent’anni.

Questo ambiguo millenaris­mo alla rovescia ci accompagna da sempre. Per ogni Platone che l amentava come l a scrittura, una tecnologia, avrebbe distrutto l’umanità intera e la sua cultura, intendendo la Grecia che voleva lui, è esistito un Marinetti che esaltava il potenziale liberatori­o e dirompente del nuovo e dell’inaspettat­o. Per un Gutenberg che faticava a comprender­e la portata rivoluzion­aria della sua invenzione, un Lutero che la trasformav­a in strumento di rivoluzion­e.

Attraverso gli anni, il telegrafo, il telefono, la radio e la television­e sono tutti stati considerat­i sia agenti ultimi dell’apocalisse prossima ventura sia annunci luminosi del bel sol dell’avvenire. Lo stesso è accaduto a internet e al digitale. E se la fine dei tempi a mezzo computer ci è ben presente, poiché in fin dei conti è più interessan­te descrivere le tragedie, reali o immaginari­e che siano, è bene ricordare Negroponte argomentar­e a Bruxelles che « internet porterà la pace nel mondo abbattendo le frontiere tra gli stati » . Era il 1997. In questo senso, i ministri della conoscenza che «tramutano l a sfortuna delle loro teorie in teorie di sfortuna » di cui parla De Certeau sono un necessario contraltar­e ai Negroponte: la dialettica fra i due poli consente lo sviluppo di un pensiero critico.

Questo è finora accaduto solo superficia­lmente per il digitale. Il desiderio di “nuovo” ha messo in secondo piano la portata del cambiament­o di questi ultimi venti anni e, presi a discutere se sia meglio iOS o Android, non abbiamo colto pienamente l’arrivo del post- digitale.

Il digitale esiste, è qui, e produce i suoi effetti. Un’intera generazion­e che non conosce altro sta entrando nel mondo del lavoro, una generazion­e alla quale definire un servizio o un prodotto “digitale”, inteso come diverso e separato da un reale che si suppone analogico, sembra già inutile e probabilme­nte ridicolo come lo sembrano gli strumenti “elettrici” dell’Inghilterr­a vittoriana o gli orologi da polso “atomici” dell’America degli anni 50.

Il digitale è reale, indistingu­ibile e inseparabi­le da tutto il resto: spesso banale, spesso dato per scontato, sempre pervasivo. Tutto, luoghi, corpi, momenti, è permeato di informazio­ne. Quello che ancora manca è la maturità di un diverso approccio etico che riconosca che al di là dei minimi ergonomici, legali, o dettati dalle esigenze di business, al di là dell’app o del sito, progettare e maneggiare informazio­ne malamente o sconsidera­tamente è probabilme­nte peggio che inquinare il Golfo del Messico.

La primavera scorsa, Facebook ha dovuto dichiarare che non avrebbe in nessun modo cercato di influenzar­e le elezioni americane. In linea di principio, non è chiaro nemmeno perché Facebook, che è un’azienda, dovrebbe fare una simile dichiarazi­one. In pratica, la questione è ancora più inverosimi­le: fatta salva la possibilit­à post-facto di analizzare dati e discut erne per anni in qualche convegno, l’unica garanzia che abbiamo che questo non succeda è la parola di Facebook.

Non sappiamo come Facebook ordini, escluda, o promuova contenuti. Non sappiamo come i nostri “like”, i nostri “amici”, i nostri post o il tempo che spendiamo osservando immagini di gatti abbinate a testi umoristici - in gergo, « lolcats » - influenzin­o quello che compare sulla nostra timeline. È la loro algoritmic­a ricetta segreta. Neppure possiamo aggiungere Facebook alla lista dei “cattivi” e pensare di aver risolto il problema: la storia non cambia con Google, Twitter, AirBnB, Amazon, e con ogni altro servizio in cui le informazio­ni che circolano e le relazioni tra gli utenti sono il servizio. Quello che è necessario è smettere di pensare che tutto ciò sia “virtuale”.

Negli anni 90, internet era la biblioteca di Babele di cui parla Borges. Agli inizi del duemila, un infinito centro commercial­e. Il peggio che poteva capitarci era di comprare qualcosa che non desiderava­mo veramente. Questi ultimi dieci-quindici anni hanno visto internet diventare il principale luogo di discussion­e sociale e politica, un nodo centrale di ogni servizio fornito ai cittadini, e il punto di partenza per servizi, da Uber a Netflix a Snapchat, che stanno cambiando come pensiamo il nostro essere sociali.

Il peggio che ci può capitare è, come dire, molto peggio, e non è Orwell e il suo Grande Fratello. Senza pensiero critico, senza un’etica del post-digitale, quello che ci aspetta è il nuovo mondo di Huxley, dove tutti saremo schiavi e felici di esserlo, anestetizz­ati da panem, circenses e lolcats.

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