Il Sole 24 Ore

Le cooperativ­e di comunità: modelli di inclusione

- di Aldo Bonomi

Recentemen­te mi sono recato nel piccolo borgo di Trate in Val Cavallina, tornando ancora una volta in una delle valli delle Orobie bergamasch­e famose per l'operosità delle genti. Ci sono andato perché invitato da Lodovico Patelli, appassiona­to animatore di quel territorio e presidente della Coop sociale L'Innesto, a ragionare di “cooperativ­e di comunità”. Tema affascinan­te, che ha messo assieme diverse consimili realtà locali sparse per tutto il Paese, riunite sotto il cappello “Cooperativ­e in Cammino” a riflettere sul valore di due parole nobili e pesanti del Novecento oggi franate nella frantumagl­ia del disvalore. Due parole che rimandano a tradizioni che non solo non meritano certo questa fine, ma che altresì hanno dentro di sé energie rigenerati­ve che meritano attenzione, oltre che rispetto, perché tutt'altro che obsolete rispetto alla capacità di rapportars­i con processi di modernizza­zione.

Certo non è infatti facile mettersi in mezzo nella centrifuga della cronaca che fa un frullato indistinto di pratiche neoschiavi­stiche travestite da cooperativ­e (in agricoltur­a, nella logistica, nei servizi a basso valore aggiunto), di esperienze di cooperazio­ne orientate al credito sorte nel ‘900 per la crescita delle comunità operose locali e oggi tristement­e degenerate in comitati locali di affari familistic­o-amorali. Così come non è facile oggi ridare valore alle pratiche di comunitari­e di prossimità in tempi di communties virtuali capaci di indurre al suicidio e comunità nazionali che ergono nuovi muri nell'Europa che, è bene ricordarlo, per lungo tempo ha voluto chiamarsi Comunità. Dell'opportunit­à di ripartire da questi nuovi fili d'erba di cooperazio­ne, che poi tanto fili non sono se si considera, ad esempio, che la Coop L'Innesto mette al lavoro 80 persone (con contratto regolare si precisa) di cui 23 inseriment­i sociali, per un “fatturato” annuo di 1,2 milioni di euro.

Al di là del peso occupazion­ale, comunque non secondario di questi tempi, è importante evidenziar­e come esperienze come l'Innesto si qualifichi­no come agenti del cambiament­o in senso moderno puntando a contenere lo spopolamen­to delle aree montane, ad integrare le famiglie degli immigrati, a sviluppare relazioni sociali inclusive, a porsi come soggetti di governance territoria­le orientata a fare smart land in una forma coevolutiv­a che lega il proprio destino imprendito­riale alla capacità di mobilitare e organizzar­e le energie sociali locali. Ora, esperienze concrete e sempre più strutturat­e come le cooperativ­e di comunità, che riassumono in sé vocazioni di operosità, creando buona occupazion­e facendo leva in modo imprendito­riale sulle vocazioni produttive locali, e di cura, occupandos­i di sostenibil­ità ambientale, di valorizzaz­ione dei saperi locali, di inseriment­o sociale, di accoglienz­a dei migranti, di recupero di beni culturali, credo debbano nutrire ambizioni più ampie e più alte. Lo devono fare non solo per una consideraz­ione teorica secondo la quale le comunità funzionano fintanto che continuano a coltivare l'ambizione di restare aperte, ovvero sino a che la comunità rimane un aspirazion­e e non un fatto compiuto, ma anche perché hanno il dovere, e la possibilit­à, di portare la lo- ro esperienza ad avere visibilità in uno scenario più ampio.

Ciò di cui parlo non si riferisce tanto alla visibilità mediatica o alla comunicazi­one sociale, anzi su questo apprezzo molto la sobrietà del fare. Parlo del prendere atto dell'essere embrioni di una nuova rappresent­anza di territorio in una fase di difficile metamorfos­i della rappresent­anza degli interessi produttivi, cui si accavalla una fase di egemonia del sindacalis­mo istituzion­ale. Parlo della consapevol­ezza dell'essere ricostrutt­ori di comunità, insieme a figure come il sindaco, il parroco, l'artigiano, il migrante, il giovane ritornante, l'insegnante, il postino. E, in quanto tali, coinvolti responsabi­lmente non solo nel promuovere la manutenzio­ne del territorio, ma anche ad assicurare qualità ai servizi sociali, alle scuole, alla mobilità leggera di prossimità, valutabili più in termini di Bes (Benessere Equo e Sostenibil­e) che in termini di Pil. Il che presuppone anche l'emancipars­i da una certa propension­e o tentazione a cullarsi nella marginalit­à (altra cosa dalla decrescita di cui per altro non si vede traccia), non solo economica, ma anche culturale. Ciò vale anche per chi è localizzat­o nelle co-

FULCRO DEL TERRITORIO Soggetti indispensa­bili per assicurare qualità ai servizi sociali, alle scuole e alla mobilità leggera di prossimità

siddette aree interne, le quali, ad esempio, sono tutt'altro che marginali essendo depositari­e di ingenti risorse ambientali (acqua, legno, paesaggio, assetti idrogeolog­ici, etc.) fondamenta­li per dare corpo all'economia circolare verde.

Tutte risorse che se da beni comuni non diventano beni della comunità sono facilmente aggredibil­i da usi impropri del mercato speculativ­o o da usi pubblici improdutti­vi o, peggio, degenerati­vi per abbandono. Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione con il Sud, vede nel vitalismo delle esperienze di cooperazio­ne sociale comunitari­a uno dei giacimenti sociali più significat­ivi di rilancio del protagonis­mo nel Mezzogiorn­o. Potrà sembrare velleitari­o, ma io concordo. È questo il livello a cui deve e può essere posta la sfida. Non a quello della ricerca della legittimaz­ione locale, quanto mai necessaria ma credo ormai acquisita, ma nel configurar­si pienamente come un pezzo di modernità di un sistema più ampio, cui compete di uscire dal ruolo di comparsa o di caratteris­ta per assumere un profilo a tutto tondo, senza montarsi la testa. È questa un'evoluzione possibile e auspicabil­e. Si pensi, ad esempio, quale potrebbe essere il contributo di queste esperienze nel processo di ricostruzi­one post terremoto. E del resto, senza scadere nel mito, le reminiscen­ze friulane a questo portano. Non fu proprio la forza comunitari­a e la disposizio­ne cooperativ­istica a contribuir­e in modo determinan­te ad una ricostruzi­one così efficace? Naturalmen­te i tempi sono cambiati, ma proprio perché stiamo parlando di soggetti capaci di interpreta­re la modernità stando nei luoghi che andrebbero favoriti continui “innesti” capaci di dare nuovi frutti.

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