Lamentoso nichilismo da camera
dell’Est - Praga, Budapest, Bucarest, Sofia, Belgrado, Vienna… - fino ad arrivare a Istanbul: « ero stanco della vita o la vita si era stancata di me » . In verità esprime bene lo spirito di un intero continente esausto e in declino: nello scompartimento del vagone le ragazze americane, vibranti di ottimismo, dicono frasi « che salivano e salivano… invece di scendere e scendere, come di solito fanno le frasi degli europei». Incontra vecchi amici e nuove compagnie femminili, riflette su di sé e sull’Europa, raccoglie annotazioni su luoghi e costumi locali, finge di innamorarsi. Un inquieto flâneur ferroviario continuamente indeciso su cosa fare ( ha sempre ottime ragioni per restare e ottime ragioni per andarsene), un antropologo alla ricerca dell’utopia della “vita vera”, tentato da un pericoloso estetismo della sregolatezza, che ci ricorda quel regista napoletano che esaltava come “creativo” il non fermarsi al rosso nella sua città.
Quando Baquero Cruz descrive come intollerabile la pulizia di Vienna, città « vecchia e borghese » - la quieta educazione e il rispetto meticoloso delle regole - sta tratteggiando senza saperlo l’unica autentica utopia civica che oggi è dato sognare a noi abitanti del Sud del mondo ( italiani, spagnoli e gli altri…). Altro che « vita imbavagliata»! Cronista minuzioso, a volte pedante, della sua interiorità, lui aspira invece alla « pazzia gioiosa » di Istanbul, fatta di aria, luce e cose bruciate, in cui perdersi irresponsabilmente. Il diario di viaggio è punteggiato da osservazioni di sapore aforistico, solo apparentemente ovvie: in una città in cui succede sempre qualcosa si sta volentieri tranquilli a casa ( « la solitudine è uno dei modi di partecipare alla vita della città » ) , o anche « non de- vi aver paura, il futuro non esiste… » . Il suo metodo di esplorazione è come racchiuso nella poetica qui riferita al regista Tavernier: «Dipingere senza trucchi, senza grandi risorse tecniche ma con maestria e precisione, con semplicità, onestamente, senza seguire le mode, cercando la bellezza dove si nasconde… » . Alla fine torna, come ospite ingrato, nell’odiata Bruxelles: non dalla sfuggente Eliza ma dalla fedele, e un po’ lacrimosa, Maria. E anche se con lei non riuscirà « mai a vincere la morte » ( perbacco è un “nichilista”) prova a ritrovare il gusto di un quotidiano prosaico ma non del tutto disprezzabile, proprio come in un film di Tavernier
Durante la lettura ci era capitato di affezionarci a questo allegro, sventato nichilista, alle sue curiosità erratiche da adolescente, al suo romanticismo dei quarti d’ora, al suo sguardo ingenuo e stupito, alle sue piccole e innocue nevrosi. Ma dopo aver chiuso il libro scopriamo di detestarlo. Perché? Perché proprio lui, tipico rappresentante del ceto intellettuale del Vecchio Continente, con i suoi molti privilegi materiali, la sua esistenza così protetta e ben organizzata da potersi permettere l’attrazione per il caos, le sue estenuate fantasticherie sentimentali, il suo fascino - usato “tatticamente” - da letterato che ha letto tutti i libri, la sua aria ostentatamente scanzonata e pensosa, ha l’improntitudine di sottoporci le elucubrazioni di un nichilismo da camera, sfinito e lamentoso: mentre, a ben vedere, non avrebbe nemmeno il diritto di dichiararsi infelice.
Julio Baquero Cruz, L’odore di Istanbul, trad. di S. Acierno, Kairòs, Napoli, pagg. 155, € 14