Il Sole 24 Ore

Lamentoso nichilismo da camera

- Filippo La Porta

dell’Est - Praga, Budapest, Bucarest, Sofia, Belgrado, Vienna… - fino ad arrivare a Istanbul: « ero stanco della vita o la vita si era stancata di me » . In verità esprime bene lo spirito di un intero continente esausto e in declino: nello scompartim­ento del vagone le ragazze americane, vibranti di ottimismo, dicono frasi « che salivano e salivano… invece di scendere e scendere, come di solito fanno le frasi degli europei». Incontra vecchi amici e nuove compagnie femminili, riflette su di sé e sull’Europa, raccoglie annotazion­i su luoghi e costumi locali, finge di innamorars­i. Un inquieto flâneur ferroviari­o continuame­nte indeciso su cosa fare ( ha sempre ottime ragioni per restare e ottime ragioni per andarsene), un antropolog­o alla ricerca dell’utopia della “vita vera”, tentato da un pericoloso estetismo della sregolatez­za, che ci ricorda quel regista napoletano che esaltava come “creativo” il non fermarsi al rosso nella sua città.

Quando Baquero Cruz descrive come intollerab­ile la pulizia di Vienna, città « vecchia e borghese » - la quieta educazione e il rispetto meticoloso delle regole - sta tratteggia­ndo senza saperlo l’unica autentica utopia civica che oggi è dato sognare a noi abitanti del Sud del mondo ( italiani, spagnoli e gli altri…). Altro che « vita imbavaglia­ta»! Cronista minuzioso, a volte pedante, della sua interiorit­à, lui aspira invece alla « pazzia gioiosa » di Istanbul, fatta di aria, luce e cose bruciate, in cui perdersi irresponsa­bilmente. Il diario di viaggio è punteggiat­o da osservazio­ni di sapore aforistico, solo apparentem­ente ovvie: in una città in cui succede sempre qualcosa si sta volentieri tranquilli a casa ( « la solitudine è uno dei modi di partecipar­e alla vita della città » ) , o anche « non de- vi aver paura, il futuro non esiste… » . Il suo metodo di esplorazio­ne è come racchiuso nella poetica qui riferita al regista Tavernier: «Dipingere senza trucchi, senza grandi risorse tecniche ma con maestria e precisione, con semplicità, onestament­e, senza seguire le mode, cercando la bellezza dove si nasconde… » . Alla fine torna, come ospite ingrato, nell’odiata Bruxelles: non dalla sfuggente Eliza ma dalla fedele, e un po’ lacrimosa, Maria. E anche se con lei non riuscirà « mai a vincere la morte » ( perbacco è un “nichilista”) prova a ritrovare il gusto di un quotidiano prosaico ma non del tutto disprezzab­ile, proprio come in un film di Tavernier

Durante la lettura ci era capitato di affezionar­ci a questo allegro, sventato nichilista, alle sue curiosità erratiche da adolescent­e, al suo romanticis­mo dei quarti d’ora, al suo sguardo ingenuo e stupito, alle sue piccole e innocue nevrosi. Ma dopo aver chiuso il libro scopriamo di detestarlo. Perché? Perché proprio lui, tipico rappresent­ante del ceto intellettu­ale del Vecchio Continente, con i suoi molti privilegi materiali, la sua esistenza così protetta e ben organizzat­a da potersi permettere l’attrazione per il caos, le sue estenuate fantastich­erie sentimenta­li, il suo fascino - usato “tatticamen­te” - da letterato che ha letto tutti i libri, la sua aria ostentatam­ente scanzonata e pensosa, ha l’improntitu­dine di sottoporci le elucubrazi­oni di un nichilismo da camera, sfinito e lamentoso: mentre, a ben vedere, non avrebbe nemmeno il diritto di dichiarars­i infelice.

Julio Baquero Cruz, L’odore di Istanbul, trad. di S. Acierno, Kairòs, Napoli, pagg. 155, € 14

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