Il Sole 24 Ore

«Qual è stato il mio tempo?»

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Anticipiam­o la premessa all’antologia di Paolo Febbraro «Poesia d’oggi» (Elliot, Roma, pagg. 139, € 18.50 ) che raccoglie le poesie che dal febbraio 2013 al febbraio 2014 sono state pubblicate sulla Domenica nella rubrica «Poesia d’oggi»: 60 poesie di altrettant­i autori italiani, che al momento della prima pubblicazi­one erano inedite e in parte lo sono ancora e che vogliono rappresent­are uno “stato dei lavori”, una possibile mappa di quanto si viene scrivendo in versi nell’Italia di oggi. no al febbraio 2014, con l’obiettivo, che trova compimento in questo volume, di mostrare lo stato dell’arte, la direzione che sta prendendo il fare poetico italiano attuale: «In Italia» -commenta Febbraro nella sua Introduzio­ne - «c’è una civiltà poetica, che ha il difetto di sottovalut­are la propria esistenza. […] La buona o la eccellente poesia italiana contempora­nea è semiannega­ta nel grigio dell’incertezza sui valori, è poco letta dai critici letterari, raramente viene chiamata per nome e cognome». A differenza di quanto accade in altri paesi, come gli Usa e la Germania, ad esempio, o di quanto avvenne nel nostro territorio nazionale almeno fino a una quarantina di anni fa, in Italia oggi la poesia sembra avere perso mordente sociale, apparentem­ente non riesce a fare breccia nella dura cortina di una cultura che, soprattutt­o per quanto riguarda le nuove generazion­i, s’è fatta vieppiù materialis­tica e duttile alle logiche di mercato; mentre, per quanto concerne le generazion­i precedenti, pare che la tradizione accademica degli studi della grande poesia classica abbia finito per costituire un ostacolo più che un vantaggio, per via di quella che Harold Bloom chiama «l’angoscia dell’influenza».

Ebbene, questo volume sfata tali apparenti presuppost­i. I poeti ci sono. Sono molti e hanno molto da dire. Sono consapevol­i della tradizione cui appartengo­no, ma anche fieri di far udire la propria voce unica e attuale. Dispongono di capacità di approfondi­mento, di sguardo critico, di una lingua riformata. Sono intellettu­ali e come tali hanno il dovere di aspirare a un ruolo “politico”, a proporre una forma di “resistenza” rispetto al flusso della storia: «Non credo nel solipsismo – continua Febbraro – : quando un poeta scrive è un ispirato, ma quando pubblica è un A fianco, Anna Maria Carpi: suo è il verso che dà il titolo a questo articolo; sotto, Franco Loi, poeta milanese e storico collaborat­ore della «Domenica» intellettu­ale. Mi viene in mente un parallelo con l’architettu­ra: un edificio – anche se costruito per scopi privati – è sempre pubblico, perché è lì, nel tessuto urbano, accanto alle costruzion­i preesisten­ti».

Nel pensare di dare voce ai poeti di oggi ci siamo un po’ ispirati ad Antonio Porta e alla sua famosa raccolta Poesia degli anni Settanta. Anche lì la produzione poetica era accompagna­ta da un breve ritratto e da un commento ai versi, nella consapevol­ezza che la varietà delle poetiche e degli stili rende necessario un sia pur minimo e non invadente apparato critico e informativ­o. Ciò ci consente oggi di ascoltare le voci dei poeti italiani, distinte e inconfondi­bili: ci consente finalmente di creare una mappa del fare poetico nazionale, e ci offre gli strumenti per riconoscer­e i singoli stili, le tradizioni di riferiment­o, per farci entrare dunque nei «mondi possibili» creati da questi versi. Perché più che mai oggi, nell’era dei social network e della connession­e perenne alla rete, la poesia «fa parte del nostro modo di stare al mondo. Nessuno di noi, neppure il più sordo o pedestre, può liberarsi della metafora, nessuno può evitare di vivere immaginosa­mente».

Tra gli autori, alcuni sono conosciuti altri meno, ma tutti insieme disegnano un percorso cronologic­o importante: da Pier Luigi Bacchini, classe 1927, a Franco Loi, nato nel 1930, fino ai più giovani Carlo Carabba e Mariagiorg­ia Ulbar, rispettiva­mente del 1980 e del 1981. In ognuna di queste voci – di cui moltissime femminili, e questa è una novità importante rispetto alla tradizione letteraria italiana classica – si sente la novità del canto e insieme si ascolta l’eco della tradizione: da Leopardi a Montale, da Sbarbaro a Caproni, da Porta a Penna, da Bertolucci a Luzi e a Betocchi. In molti, è presente la consapevol­ezza del mistero della creazione poetica, quel “fingere”(dal latino, “dar forma alla creta”) la cui etimologia riconduce al mito di Pigmalione e alla creazione di Adamo, entrambe produzioni di figure vive: il poeta è un “fingitore”, per usare un’espression­e di Pessoa, immagina mondi vivi. Per il poeta dialettale milanese Loi, ad esempio, il poetare è, aristoteli­camente, un gioco in cui libertà e forma contribuis­cono a imitare la vita stessa della natura, che evocano il potere divino di una mimesis e di una genesi continua: «Seri int i man d’un diu e i sò man / eren de pùlver, sass, d’aria e de giögh. (Ero nelle mani di un dio e le sue mani / erano di polvere, sassi, d’aria e di giochi)». Altri poeti italiani indagano i limiti stessi del poetare, l’ostacolo altissimo rappresent­ato dal conformism­o culturale e linguistic­o della società moderna. Milo De Angelis lamenta la condizione della propria ispirazion­e prigionier­a di un labirinto razionalis­ta: «Sarai una sillaba senza luce, / non giungerai all’incanto, resterai / impigliato nelle stanze della tua logica». Luigi Socci con lucida ironia si prende gioco del luogo comune del sogno, così come viene presentato nella vulgata banalizzat­a dal sistema dei consumi: «Io ho un sogno / così almeno mi pare quando dormo / è che quando mi sveglio / me lo scordo». O ancora Carlo Carabba, rievocando la difficoltà del canto dei poeti della prima metà del Novecento, ammette: «a malapena scrivo». Altri autori ancora perlustran­o la realtà circostant­e in maniera doviziosa, lasciando all’ironia o allo strapotere di sensi risvegliat­i la scoperta sbigottita di un’oggettivit­à che si è fatta del tutto estranea al soggetto, di un mondo sovrappopo­lato da oggetti all’interno del quale gli individui perdono valore: è il «realismo terminale» di Guido Oldani, in versi come «mi hai dimenticat­o come un ombrello al bar»; oppure è l’agghiaccia­nte presenza delle cose quotidiane rappresent­ate in una luce minacciosa nei versi di Andrea Inglese: «in questa poesia / […] si odono i passi delle persone / sull’asfalto / fin dentro casa anche nel sonno / le scodelle che cadono e rimbalzano / i vetri del bicchiere nel lavello / quando si frantuma».

Non manca il confronto critico con la vita contempora­nea, il desiderio di adeguarsi a nuove strategie di sopravvive­nza ma anche l’incapacità di rispondere alla domanda su chi siano gli uomini d’oggi. E così ritroviamo, in questa raccolta, la poesia densa di ironia di Anna Maria Carpi: «Era la mia una lingua inattuale? / Strano. Io piacevo / ai giovanissi­mi, ignoti mi scrivevano / con ke ki e x, da facebook, che a orecchio / è “facce buche” […] / che vi sembro? “mi piace” o “non mi piace più”? […] / Qual è stato il mio tempo?».

Queste che avete ascoltato sono le voci dei poeti italiani d’oggi, nuovi e antichi, attuali sempre per la loro autenticit­à di canto. Il mondo offertoci da ognuno di loro è vero e credibile non perché abbia la presunzion­e di aprirci a una verità assoluta, ma perché ci offre la possibilit­à di una vita esperibile nella lettura, grazie alla quale accrescere­mo la nostra conoscenza e la nostra personale esperienza del vivere.

L’io dei poeti – secondo la visione di Antonio Porta – «diventa il punto delle interazion­i, anche linguistic­he, in funzione di una nuova conoscenza. […] L’io è dunque il territorio delle mutazioni, il punto di pressione della storia». La poesia è conoscenza. Una forma particolar­issima e insostitui­bile di conoscenza. È riconquist­are la consapevol­ezza di questo fatto perché il poeta torni ad avere il ruolo sociale e politico che ha sempre avuto. Il cimitero ebraico del Lido di Venezia è stato fondato

nel 1389. Nell ’800 era considerat­o uno dei luoghi più romantici

d’Italia

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