Il Sole 24 Ore

L’eretico fa ridere

L’autore dei «Racconti di Padre Brown» ha affrontato anche temi complessi come eresia e ortodossia. Ma sempre con ironia

- Di Gianfranco Ravasi

Teneva incollati davanti al televisore ben 18 milioni (sic!) di spettatori e tra essi c’ero anch’io: dobbiamo, però, risalire alla sera di domenica 29 dicembre 1970 quando sugli schermi scorreva solo l’unico programma “nazionale”. In una serie di sei puntate andavano allora in onda I racconti di Padre Brown, il cui protagonis­ta era un vivace Renato Rascel, «assai più casereccio dell’acuto personaggi­o inventato dallo scrittore inglese Chesterton» (Aldo Grasso), prete detective in costante contrappun­to con l’amico, il ladro redento Flambeau, che aveva allora il volto di Arnoldo Foà. Ma questo ironico e geniale autore, cattolico professo – «Qual è la differenza fra la Chiesa cattolica e quella anglicana? La Chiesa cattolica è la Chiesa dei grandi santi e dei grandi peccatori. La Chiesa anglicana è quella della gente rispettabi­le» – aveva nella sua immensa bibliograf­ia non solo scritti narrativi. Anzi, le sue opere maggiori erano di forte impegno teorico, il tutto sempre condito con la spezia dello humour britannico.

Eccone solo qualche esempio tra i mille possibili: «Un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto... Per me l’unico modo di prendere un treno è perdere il treno precedente... Noè diceva spesso a sua moglie quand’era a tavola: Non m’importa dove va l’acqua, purché non vada nel vino... Un ottimista è un uomo che vi guarda negli occhi, un pessimista un uomo che vi guarda i piedi... Quando non si crede più in Dio non è vero che non si crede più a nulla, si crede a tutto» e così via, al punto tale che esistono battute apocrife come quella che il presidente Kennedy gli attribuiva: «Non abbattere mai una palizzata prima di conoscere la ragione per cui fu costruita». Oppure quella modulata sulla sua mole fisica: «Oggi, in metropolit­ana, sono stato felice di cedere il mio posto a due signore». Certo è che Gilbert Keith Chesterton, nato a Londra nel 1874 e morto in una cittadina del Buckingham­shire nel 1936, amò sempre il bagliore del paradosso ironico ma mai banale, convinto com’era che

«una battuta di spirito è una cosa assoluta, sacra, che non si può criticare. I nostri rapporti con una buona battuta di spirito sono immediati e addirittur­a divini». È per questo che, secondo lui, la serietà è un vizio più che una virtù e la sua ammirazion­e andava a San Francesco perché fu «colui che fece tutto da innamorato».

Per questo, sempre sul filo del paradosso, era convinto che i vangeli hanno parlato solo del pianto di Cristo ma non del suo riso, perché «era una cosa troppo grande per mostrarcel­a quando camminava su questa terra» e perciò egli sfogava la sua gioia nella solitudine, «quando s’inerpicava sulla montagna a pregare». Il cristianes­imo era per Chesterton la religione dell’incarnazio­ne nella storia, del coinvolgim­ento col groviglio delle vicende umane e non una spirituali­tà astratta, in volo nei cieli mitici e mistichegg­ianti. Infatti, scriveva: «Tutta l’iconografi­a cristiana rappresent­a i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografi­a buddhista rappresent­a ogni essere con gli occhi chiusi». Il cattolices­imo, perciò, col suo peso – come si è detto – di santi e peccatori, di glorie e di infamie, partecipa meglio del realismo dell’incarnazio­ne. E

questo realismo si esprime nel quotidiano semplice e modesto più che nell’epifania possente e perfetta: «Con un po’ di pazienza, un po’ di comprensio­ne, un po’ di gioia e un po’ di umiltà, non avete idea di quanto potreste trovarvi bene su questo nostro pianeta terra».

Speriamo, attraverso questo sfarfallio di battute, di aver ingolosito quei lettori che non hanno mai incrociato testualmen­te lo scrittore londinese, perché provino ad affrontare anche i saggi più impegnativ­i, sempre segnati dal fremito della polemica ironica (mai però sarcastica e offensiva). Abbiamo, infatti, l’occasione di suggerire due suoi saggi importanti, da accostare a dittico perché così sono stati concepiti: essi sono ora proposti dall’editrice Lindau all’interno del progetto “Chesterton­iana”, una sorta di opera omnia dell’autore inglese. Partiamo, dunque, con Eretici. In un’opera postuma, L’uomo comune, egli offriva un suggestivo ritratto dell’eretico: «Nel vecchio mondo si chiamavano eresie, nel mondo moderno sono chiamate mode... L’eretico, che è anche sempre fanatico, non è colui che ama troppo la verità. È invece colui che ama la propria verità più della verità stessa. Preferisce, alla verità inte- ra scoperta dall’umanità, la mezza verità che ha scoperto lui stesso».

Ebbene, chi sono questi moderni eretici/ eresie? Chesterton non ha nessuna esitazione e, anziché ricorrere a fumose allegorie o ad ammiccamen­ti crittograf­ici, punta l’indice contro certe icone del suo tempo, da Kipling a Shaw, da Wells a Whistler, oppure contro i dogmi laici di sempre, come l’idolo adorato del progresso, il determinis­mo, il positivism­o, lo scetticism­o, l’illuminism­o massonico e l’ateismo marxista ma anche il capitalism­o sfrenato. Ed è un godimento leggere queste pagine che, tra l’altro, rivelano la fusione tra il nitore cristallin­o dell’argomentaz­ione dialettica con un retroterra molto vasto di letture, confermand­o quello che lui stesso affermava riguardo alle varie opere letterarie: «esse sono sempre allegorich­e di una qualche visione totale del mondo». Ed è per questo che a Eretici – che era una silloge di articoli critici precedenti, pubblicata nel 1905 – Chesterton decise nel 1908, spinto anche dalla sollecitaz­ione di molti lettori, di proporre la sua visione positiva dell’essere e dell’esistere.

Nacque, così, una delle sue opere maggiori e più citate, provocator­ia già nel titolo, Ortodossia, con evidente rim ando alla sua fede cristiana incontamin­ata, senza imbarazzi nei confronti del mistero che alona il credere, perché «l’uomo può capire tutto con l’aiuto di quello che non capisce. Il logico morboso vuol vedere chiaro in ogni cosa col bel risultato di rendere ogni cosa inesplicab­ile». Nessun imbarazzo anche nell’adottare un taglio nettamente apologetic­o nei confronti di una fede a cui egli aderiva proprio perché convincent­e: per questo egli non esitava a presentars­i ai crocevia critici ove obiezioni, accuse, riserve si levavano a sbarrare il percorso del credente. Chesterton, però, le spianava con la lievità del suo stile accattivan­te e gustoso ma anche con la fermezza di un argomentar­e rigoroso e ineccepibi­le.

Ma, spazzate via le “eresie” antiche e soprattutt­o moderne che costituiva­no la sostanza anche del precedente volume, ecco aprirsi l’orizzonte libero, gioioso e fecondo del cristianes­imo: il suo respiro morale diventa, così, capace di alimentare «una vita attiva e ricca di fantasia, pittoresca e piena di curiosità poetica, una vita come quella che l’uomo occidental­e, in ogni caso, sembra aver sempre sognato». È proprio il contrario di un pedante ascetismo, di un’afflizione intellettu­ale, di un meschino moralismo, come scriverà un anno dopo nelle pagine dei Tremendous Trifles (titolo evidenteme­nte ossimorico, “tremende inezie” o “bagatelle”): «Se c’è qualcosa di peggio del moderno indebolirs­i dei grandi principi morali, è l’odierno irrigidirs­i dei piccoli principi morali». Leggendo Ortodossia (ma non solo), si riesce, allora, a capire, perché l’agnostico Borges confessass­e: «La letteratur­a è una delle forme di felicità; forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton».

Gilbert Keith Chesterton, Eretici, prefazione di Roberto Giovanni Timossi, Lindau, Torino, pagg. 262, € 22

Gilbert Keith Chesterton, Ortodossia, prefazione di Gianni Gennari, Lindau, Torino, pagg. 254, € 19,50

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| Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936)
inglese & cattolico | Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton (1874 - 1936)

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