Giorni festiv i e sogni nel Rinascimento
Idivorzi, si sa, costano. Le spese raddoppiano, le entrate si dimezzano, e alla tristezza può talvolta accompagnarsi la miseria. Per tutto il medioevo, e fino a che è rimasta sposa, anzi ancella dei teologi, alla filosofia non è poi andata così male. Un tetto l’ha avuto, abiti decenti se non proprio sontuosi, e il supporto del grande apparato organizzativo della chiesa. I guai sono cominciati con l’Umanesimo, con quella fissazione d’esser indipendente, emula degli antichi, libera da costrizioni di dottrina. Da sola, senza l’aiuto della teologia, la bella inquieta ha cominciato a restringersi, a immiserire e, diciamocelo, a far quasi la fame. « Povera et nuda vai, Philosophia, dice la turba al vil guadagno intesa», lamenta già Petrarca. Senza un soldo, d’accordo, ma a rinunciare ai vestiti si rischiano raffreddori d’inverno e avances spinte in tutte le stagioni, con danni alla morale e al decoro. Ecco perché alcune anime pie hanno cercato ben presto di coprirla e scaldarla, questa nostra avvenente squattrinata. È il 1417, e per far le cose in grande, si fonda addirittura uno Stato tutto per lei, grande quanto basta ad accogliere madama Sapienza e i suoi seguaci, o amanti che dir si vogliano. Il nome? « Repubblica delle lettere » , così la chiama Francesco Barbaro in un’epistola a Poggio Bracciolini, e ne disegna per primo il territorio libero, vasto, luminoso. Anziché armi e denaro, nello Stato dei dotti governano i libri e l’inchiostro. Se gli altri, i vili, inseguono l’oro, i cittadini della Repubblica cercano i vecchi manoscritti dei classici greci e latini. Mettono a soqquadro cantine e granai, strappano ai topi qualche rimasuglio di Cicerone d’annata o un Quintiliano, « pieno di muffa e di polvere » . Con le pergamene rabberciate rivestono le grazie di Filosofia e della sua sorella, la Retorica dagli occhi alteri. La Repubblica fondata da poco è tutta un fervore di scoperte, di lettere e di pettegolezzi, ognuno mette in mostra quello che sa, in una gara di emulazione che a guardarla dai tempi nostri, di poveri servitorelli di Wikipedia, ci fa sospirare d’invidia. E non crediate che questa Res publica umanistica detti legge solo a Firenze, a Roma o a Venezia. Se volete spingervi un poco più a sud, a Napoli, sarete accolti da un tipo un po’ strano, giureconsulto e amabile chiacchierone. Nato nel 1461, e vissuto a lungo nella città partenopea, Alessandro d’Alessandro riassume in sé pregi e difetti di quell’antica genia di letterati: una gran erudizione, il gusto del racconto, e qualche fanfaronata. I suoi Giorni di festa, pubblicati in latino e tradotti con garbo da Mauro de Nichilo, furono al loro tempo un best- seller internazionale. Volete trovarvi sulla spiaggia, d’estate, a discorrere della differenza tra reperio e invenio? O preferite una serata tra amici, a mangiar « vecchia zucca, con un gambo di lattuga guarnito di acini d’uva passa » , mentre un giovinetto canta le Elegie di Properzio? D’Alessandro parla, divaga, descrive, si abbandona ai piaceri della tavola e s’arrabbia come un matto se qualcuno fa un errore di grammatica. Quando non ha la fonte, l’inventa, e infila certe autorità antiche messe lì pour épater – che le diresti false e spergiure.
La bellona languida, Philosophia, ascolta, sorride, tace. Forse non è proprio ben vestita, e se non nuda, è in négligé. Ma al fuoco di tante ciance colte, almeno non trema. Nella repubblica italica delle lettere, sezione partenopea, si stava al caldo. Finché è durata.
Alessandro d’Alessandro, Giorni di festa. Dispute umanistiche e strane storie di sogni, presagi e fantasmi , introduzione, commento e cura di Mauro de Nichilo, Testo latino a fronte, La scuola di Pitagora, Napoli, pagg. 252, € 18,70