A chi conviene lo status quo
L’Italia degli sprechi e la sostenibilità del debito pubblico secondo l’analisi dell’ex commissario alla «spending review»
Perotti è stato un personaggio televisivo molto apprezzato e per questo è stato chiamato a fare il commissario alla spending review dopo l’abbandono di Cottarelli. Non lo diciamo per sminuirlo, ma solo per tener conto delle inevitabili dinamiche che hanno portato alla sua nomina e poi alle sue dimissioni. È quanto documenta questo libro in maniera molto leggibile, anche se il suo autore si tiene lontano da qualsiasi volontà di rivalsa.
Perotti è stato chiamato da chi pensava che affidare un compito delicato ad un “denunciatore” (ci si perdoni il vocabolo) dei mali del Paese fosse ottimo per convincere l’opinione pubblica che si voleva fare sul serio. Non si è tenuto conto che se chi denunciava chiedeva poi di dare un qualche seguito a quanto aveva detto la faccenda sarebbe diventata complicata. Non poi più di tanto, perché, come questo libro documenta tranquillamente, a tutto avrebbe pensato il muro di gomma formato dal combinarsi della burocrazia e della politica dei ministeri. Quel muro di gomma avrebbe provveduto ad incapsulare chi pensava di poter prendere il toro per le corna e a costringerlo a scegliere fra il consueto dilemma: sottomettersi o dimettersi.
Come è andata a finire lo sappiamo, ma basta leggere questo libro per capire il come e il perché. L’analisi parte dal quadro di fronte a cui si trovano tutti coloro che affrontano il problema della situazione economica italiana: il cosiddetto “keynesismo delle tasse e della spesa”, ovvero l’illusione che spendere crei consumo e questo crei tasse e il tutto combinandosi crei sviluppo e diminuzione del debito pubblico. Certo Perotti non crede al mito dell’austerità come riduzione della spesa, né a qualche totem da dare in pasto all’opinione pubblica tipo i tagli ai costi della classe dirigente (che vanno da 1 a 2 miliardi su un totale di 800) o all’eterno ritornello della lotta all’evasione fiscale.
Il problema è invece quello di un approccio globale al tema della spesa e della capacità di fissare priorità, anche al costo di rivedere la sedimentazione storica degli interventi statali. Ed è qui che ci si imbatte nel muro dello “status quo” che dà il titolo al libro. Da un lato non sarebbe difficile individuare settori in cui gli interventi sono legati a logiche oggi difficilmente comprensibili. Perotti fa l’esempio dei duecento milioni di sussidi destinati all’ippica, un fenomeno la cui rilevanza sfugge. Sono cifre non enormi, ma 200 milioni in più alla ricerca, tanto per dire, sarebbero ben più produttivi. Ci sono molti esempi di questo disperdersi di finanziamenti in una miriade di rivoli, ciascuno magari in sé neppure troppo rilevante, ma che messi insieme fanno un bel problema (come diceva il buon Totò, è la somma che fa il totale).
C’è comunque una questione anche maggiore nell’approcciarsi al tema della riforma della spesa: la difficoltà di disporre di banche dati omogenee, aggiornate e costruite in maniera appropriata. L’esempio che viene fatto sulla impossibilità pratica di avere una mappa precisa delle “partecipate” è emblematico: la denuncia di questo sistema come di un cancro che divora non solo l’economia, ma la stessa politica italiana è continua e condivisa, ma manca una mappatura affidabile del fenomeno. In un Paese in cui, denuncia Perotti, l’approccio prevalente è quello di carattere legalistico (ci sono “combinati disposti” d’ogni genere nella marea della nostra legislazione, fatta di leggine infilate lì in qualche occasione, ma che poi rimangono) è già difficile muoversi. Figurarsi quando a guardia di questo Moloch ci si mettono sindacalismi e corporativismi d’ogni genere.
Altrettanto difficile è definire l’obiettivo degli interventi. L’autore fa l’esempio delle politiche assistenziali che troppo spesso danno sussidi a chi non ne ha veramente bisogno e non riescono a distribuirli a chi si trova in grandi difficoltà.
Perotti è caustico nel raccontare, senza far nomi, la sua esperienza di scontri con la alta burocrazia ministeriale, ma anche con i titolari dei dicasteri. Ricorda la sufficienza con cui questo mondo guarda ai “professori” a cui viene rimproverata la mancanza di “sensibilità politica e sociale”. È una comoda scusa per dire che ovviamente se si tagliano sussidi qualche conseguenza c’è per forza su chi è colpito nella sua rendita di posizione e che i politici temono moltissimo le alleanze trasversali fra i colpiti dalla razionalizzazione che si traducono in perdita di consenso per loro e in consenso che si riversa immediatamente su opposizioni ben liete di accoglierlo a dispetto di qualsiasi responsabilità verso l’interesse nazionale.
La conseguenza sono i meccanismi di rifugio quando per forza di cose qualcosa si deve pure fare. Il sistema più semplice e ben noto sono i tagli lineari: mal comune, mezzo gaudio. Poi ci sono le cortine fumogene: un po’ di retorica della trasparenza, l’atto di fede nella capacità delle “norme” di mettere tutti di fronte al fatto compiuto (salvo a produrre le famose giungle normative in cui poi tutti si perdono).
Perotti non è un fanatico giacobino e nel suo libro si esprime con chiarezza sul fatto che i tecnici debbono optare per la gradualità, perché una situazione tanto complicata non si può sanare facendo in un colpo terra bruciata di quanto esiste. Ciò non significa però limitarsi ad interventi palliativi. Si deve tenere conto di quanto si fa in altri Paesi e dei risultati che lì si sono raggiunti nonché degli errori che sono stati fatti. Bisogna puntare ad attrezzarsi con l’acquisizione di competenze idonee, anziché affidarsi al primo affabulatore che passa. È doveroso infine avere un approccio organico al problema, affrontando la questione della spesa pubblica nel suo complesso, senza privilegiare, più o meno furbescamente, questo o quel settore per favorirlo cominciando magari da interventi spot che fanno audience, ma che sono tutto fumo e niente arrosto.
In definitiva, avverte Perotti, la questione è molto seria, perché stiamo parlando non solo di una esigenza di rimettere in ordine la nostra economia (e già non sarebbe poco!), ma di tranquillizzare l’Europa sulla sostenibilità del nostro debito pubblico. Questa, come è ampiamente noto, è la nostra palla al piede, perché tra i Paesi con cui dobbiamo per forza di cose confrontarci nessuno ha un debito pubblico così mostruosamente pesante come quello italiano. E siccome siamo un pezzo della moneta unica quella componente pesa, lo si voglia o no, in qualche misura sull’equilibrio dell’intero sistema dell’euro. Insomma l o “status quo” può far dormire sonni tranquilli a coloro che, magari per ragioni d’età, pensano che possa durare ancora un po’, ma genera più di un incubo a quanti sono consapevoli che sarà inevitabile pagare il conto di quanto abbiamo mal costruito, a meno che non riusciamo a cambiargli verso in maniera virtuosa.
Roberto Perotti, Status quo. Perché in Italia è così difficile cambiare le cose (e come cominciare a farlo), Feltrinelli, Milano, pagg. 208, € 16