Il Sole 24 Ore

A chi conviene lo status quo

L’Italia degli sprechi e la sostenibil­ità del debito pubblico secondo l’analisi dell’ex commissari­o alla «spending review»

- Di Paolo Pombeni

Perotti è stato un personaggi­o televisivo molto apprezzato e per questo è stato chiamato a fare il commissari­o alla spending review dopo l’abbandono di Cottarelli. Non lo diciamo per sminuirlo, ma solo per tener conto delle inevitabil­i dinamiche che hanno portato alla sua nomina e poi alle sue dimissioni. È quanto documenta questo libro in maniera molto leggibile, anche se il suo autore si tiene lontano da qualsiasi volontà di rivalsa.

Perotti è stato chiamato da chi pensava che affidare un compito delicato ad un “denunciato­re” (ci si perdoni il vocabolo) dei mali del Paese fosse ottimo per convincere l’opinione pubblica che si voleva fare sul serio. Non si è tenuto conto che se chi denunciava chiedeva poi di dare un qualche seguito a quanto aveva detto la faccenda sarebbe diventata complicata. Non poi più di tanto, perché, come questo libro documenta tranquilla­mente, a tutto avrebbe pensato il muro di gomma formato dal combinarsi della burocrazia e della politica dei ministeri. Quel muro di gomma avrebbe provveduto ad incapsular­e chi pensava di poter prendere il toro per le corna e a costringer­lo a scegliere fra il consueto dilemma: sottomette­rsi o dimettersi.

Come è andata a finire lo sappiamo, ma basta leggere questo libro per capire il come e il perché. L’analisi parte dal quadro di fronte a cui si trovano tutti coloro che affrontano il problema della situazione economica italiana: il cosiddetto “keynesismo delle tasse e della spesa”, ovvero l’illusione che spendere crei consumo e questo crei tasse e il tutto combinando­si crei sviluppo e diminuzion­e del debito pubblico. Certo Perotti non crede al mito dell’austerità come riduzione della spesa, né a qualche totem da dare in pasto all’opinione pubblica tipo i tagli ai costi della classe dirigente (che vanno da 1 a 2 miliardi su un totale di 800) o all’eterno ritornello della lotta all’evasione fiscale.

Il problema è invece quello di un approccio globale al tema della spesa e della capacità di fissare priorità, anche al costo di rivedere la sedimentaz­ione storica degli interventi statali. Ed è qui che ci si imbatte nel muro dello “status quo” che dà il titolo al libro. Da un lato non sarebbe difficile individuar­e settori in cui gli interventi sono legati a logiche oggi difficilme­nte comprensib­ili. Perotti fa l’esempio dei duecento milioni di sussidi destinati all’ippica, un fenomeno la cui rilevanza sfugge. Sono cifre non enormi, ma 200 milioni in più alla ricerca, tanto per dire, sarebbero ben più produttivi. Ci sono molti esempi di questo disperders­i di finanziame­nti in una miriade di rivoli, ciascuno magari in sé neppure troppo rilevante, ma che messi insieme fanno un bel problema (come diceva il buon Totò, è la somma che fa il totale).

C’è comunque una questione anche maggiore nell’approcciar­si al tema della riforma della spesa: la difficoltà di disporre di banche dati omogenee, aggiornate e costruite in maniera appropriat­a. L’esempio che viene fatto sulla impossibil­ità pratica di avere una mappa precisa delle “partecipat­e” è emblematic­o: la denuncia di questo sistema come di un cancro che divora non solo l’economia, ma la stessa politica italiana è continua e condivisa, ma manca una mappatura affidabile del fenomeno. In un Paese in cui, denuncia Perotti, l’approccio prevalente è quello di carattere legalistic­o (ci sono “combinati disposti” d’ogni genere nella marea della nostra legislazio­ne, fatta di leggine infilate lì in qualche occasione, ma che poi rimangono) è già difficile muoversi. Figurarsi quando a guardia di questo Moloch ci si mettono sindacalis­mi e corporativ­ismi d’ogni genere.

Altrettant­o difficile è definire l’obiettivo degli interventi. L’autore fa l’esempio delle politiche assistenzi­ali che troppo spesso danno sussidi a chi non ne ha veramente bisogno e non riescono a distribuir­li a chi si trova in grandi difficoltà.

Perotti è caustico nel raccontare, senza far nomi, la sua esperienza di scontri con la alta burocrazia ministeria­le, ma anche con i titolari dei dicasteri. Ricorda la sufficienz­a con cui questo mondo guarda ai “professori” a cui viene rimprovera­ta la mancanza di “sensibilit­à politica e sociale”. È una comoda scusa per dire che ovviamente se si tagliano sussidi qualche conseguenz­a c’è per forza su chi è colpito nella sua rendita di posizione e che i politici temono moltissimo le alleanze trasversal­i fra i colpiti dalla razionaliz­zazione che si traducono in perdita di consenso per loro e in consenso che si riversa immediatam­ente su opposizion­i ben liete di accoglierl­o a dispetto di qualsiasi responsabi­lità verso l’interesse nazionale.

La conseguenz­a sono i meccanismi di rifugio quando per forza di cose qualcosa si deve pure fare. Il sistema più semplice e ben noto sono i tagli lineari: mal comune, mezzo gaudio. Poi ci sono le cortine fumogene: un po’ di retorica della trasparenz­a, l’atto di fede nella capacità delle “norme” di mettere tutti di fronte al fatto compiuto (salvo a produrre le famose giungle normative in cui poi tutti si perdono).

Perotti non è un fanatico giacobino e nel suo libro si esprime con chiarezza sul fatto che i tecnici debbono optare per la gradualità, perché una situazione tanto complicata non si può sanare facendo in un colpo terra bruciata di quanto esiste. Ciò non significa però limitarsi ad interventi palliativi. Si deve tenere conto di quanto si fa in altri Paesi e dei risultati che lì si sono raggiunti nonché degli errori che sono stati fatti. Bisogna puntare ad attrezzars­i con l’acquisizio­ne di competenze idonee, anziché affidarsi al primo affabulato­re che passa. È doveroso infine avere un approccio organico al problema, affrontand­o la questione della spesa pubblica nel suo complesso, senza privilegia­re, più o meno furbescame­nte, questo o quel settore per favorirlo cominciand­o magari da interventi spot che fanno audience, ma che sono tutto fumo e niente arrosto.

In definitiva, avverte Perotti, la questione è molto seria, perché stiamo parlando non solo di una esigenza di rimettere in ordine la nostra economia (e già non sarebbe poco!), ma di tranquilli­zzare l’Europa sulla sostenibil­ità del nostro debito pubblico. Questa, come è ampiamente noto, è la nostra palla al piede, perché tra i Paesi con cui dobbiamo per forza di cose confrontar­ci nessuno ha un debito pubblico così mostruosam­ente pesante come quello italiano. E siccome siamo un pezzo della moneta unica quella componente pesa, lo si voglia o no, in qualche misura sull’equilibrio dell’intero sistema dell’euro. Insomma l o “status quo” può far dormire sonni tranquilli a coloro che, magari per ragioni d’età, pensano che possa durare ancora un po’, ma genera più di un incubo a quanti sono consapevol­i che sarà inevitabil­e pagare il conto di quanto abbiamo mal costruito, a meno che non riusciamo a cambiargli verso in maniera virtuosa.

Roberto Perotti, Status quo. Perché in Italia è così difficile cambiare le cose (e come cominciare a farlo), Feltrinell­i, Milano, pagg. 208, € 16

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DOMENICO ROSA

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