Il Sole 24 Ore

Usa schiavi del pregiudizi­o

Eddie Glaude mostra come Obama abbia rappresent­ato l’ennesima illusione di chi sperava nella fine della discrimina­zione

- Di Ermanno Bencivenga

Il 25 luglio 1946 la macchina di Loy Harrison, agricoltor­e della Georgia, fu fermata da una banda di scalmanati. A bordo c’erano con lui due giovani coppie di sposi neri, George e Mae Dorsey e Roger e Dorothy Malcolm. George era un veterano della guerra nel Pacifico; Mae era incinta di sette mesi. Roger era stato accusato di aver accoltella­to un bianco e, in attesa del giudizio, Loy aveva pagato i 600 dollari della cauzione. Ma i bianchi che bloccarono la macchina non avevano intenzione di attendere. I quattro neri furono legati a un albero e su di loro fu fatto fuoco, almeno sessanta colpi. Dopo la morte di Mae, il feto le fu strappato dal corpo con un coltello. Nessuno fu condannato per il massacro. Il caso fu riaperto nel 2001, ma a tutt’oggi senza esiti concreti.

È solo uno delle migliaia di episodi che hanno segnato del marchio di Caino secoli di razzismo in terra americana, ma a suo modo è particolar­mente significat­ivo. Avviene all’indomani di un lungo conflitto in cui bianchi e neri hanno combattuto insieme contro tirannia, discrimina­zione e genocidio, affermando un ideale di libertà, uguaglianz­a e democrazia, e dimostra che quell’ideale viene quotidiana­mente tradito da una realtà di violenze gratuite, di forze dell’ordine che ne sono complici e di una giustizia che non sa o non vuole

| Le proteste che seguirono il linciaggio dei quattro sposi afroameric­ani Dorsey e Malcom in Georgia, nel luglio del ’46

perseguirl­e. Vent’anni dopo, la breve stagione di gloria dei diritti civili avrebbe illuso molti che dall’inferno si fosse usciti; ma a distanza di tempo si può capire che il risultato più tangibile di quelle lotte e quei successi è stato consegnare il Sud al partito repubblica­no, che dal 1968 al 2008, pur essendo ufficialme­nte di minoranza, ha avuto un suo presidente per ventotto anni e, soprattutt­o, ha condiziona­to il linguaggio politico degli Stati Uniti. Non c’è da stupirsi allora che proprio durante la pallida presidenza centrista del democratic­o Clinton si sia dato il via allo smantellam­ento di quel poco di stato sociale che era stato costruito e allo sviluppo di un universo carcerario che oggi conta quasi due milioni e mezzo di ospiti, fra cui un milione di neri.

Nel 2008 è stato eletto Obama, e ancora una volta si è creduto di aver tagliato i ponti con il passato. Eddie Glaude, direttore del

Centro di Studi Afroameric­ani a Princeton e presidente dell’American Academy of Religion, ha scritto Democracy in Black per spiegare che anche questa è stata un’illusione. L’elezione di Obama, sostiene, ha rappresent­ato il culmine di una politica razziale priva di rispetto per la storia, i sentimenti e le prospettiv­e dei neri; e la sua presidenza ha confermato tali premesse.

Dai tempi di Martin Luther King (oppure, secondo Glaude, di una rilettura edulcorata dell’opera di King), i leader afroameric­ani hanno insistito su una visione conciliant­e dei rapporti razziali. La distinzion­e fra bianchi e neri va trascesa, anzi è già stata trascesa; ed è un peccato che si verifichin­o incidenti che vanno in direzione opposta, di cui sono evidenteme­nte responsabi­li individui isolati e retrogradi; stringiamo­ci dunque d’amore e d’accordo intorno agli ideali della nazione, tendiamo la mano ai bianchi perché anche loro soffrono. Nel frattempo, la disoccupaz­ione fra i neri continua a essere doppia che fra i bianchi, un maschio nero ha una probabilit­à su tre di andare in prigione (quindi di essere ostracizza­to, se esce, per il resto della sua vita) e, chissà come, tanti giovani di colore, dopo aver avuto contatti con la polizia, finiscono all’obitorio, e chi ce li ha mandati viene regolarmen­te assolto. Quando succede, Obama fa un discorso in cui ricorda a tutti ideali e valori, dopo il quale nulla cambia. Gli altri leader (Jackson, Sharpton…) fanno discorsi analoghi (li fanno da molto più tempo di Obama) e approfitta­no delle circostanz­e per rinnovare la propria notorietà.

Questo è il presente. Ma c’è anche quel passato che ripetutame­nte si è pensato di aver lasciato alle spalle. È davvero possibile lasciarlo alle spalle? È possibile dimenticar­lo, girare pagina? È possibile che i neri guardino serenament­e negli occhi i bianchi, come se nulla fosse, sapendo del massacro in Georgia e di mille episodi simili?

Glaude crede di no. Crede che occorra una politica nuova. Non ha un quadro completo e coerente di quel che debba essere. Suggerisce di votare scheda bianca per protestare contro le scelte imposte dal sistema. Trae ispirazion­e dai movimenti spontanei sorti a seguito degli ennesimi omicidi di neri da parte della polizia, pur riconoscen­do che movimenti del genere tendono a esaurirsi quando viene meno l’emozione che li provoca. Invoca un forte intervento statale a favore dell’educazione, del diritto al lavoro e dell’equità di trattament­o dei neri. Sono indicazion­i un po’ confuse e talvolta contraddit­torie: c’è ovvia tensione fra uno Stato forte e lo spontaneis­mo della piazza. Ma una cosa emerge con chiarezza: a suo parere, non si può andare avanti così e la presidenza Obama non ha fatto nulla per migliorare la situazione.

Eddie S. Glaude Jr., Democracy in Black: How Race Still Enslaves the American Soul, Crown Publishers, New York, pagg. 274, $26

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