Il Sole 24 Ore

Prima guida ai palazzi dell’Emirato

- Gabriele Neri

niera di architettu­ra tardo-modernista, progettata da figure come Alison e Peter Smithson, Georges Candilis, Jørn Utzon, Kenzo Tange, Félix Candela, Arne Jacobsen, TAC (lo studio di Walter Gropius), SOM, Arup, I. M Pei, Hassan Fathy, Marcel Breuer e molti altri, tra cui gli italiani Franco Albini, BBPR, Luigi Moretti, Pier Luigi Nervi, Ignazio Gardella.

Il libro, frutto di un vasto lavoro di ricerca, catalogazi­one e di una campagna fotografic­a condotta da Nelson Garrido, è diviso in quattro capitoli che ripercorro­no – dopo un saggio introdutti­vo e una utile timeline – quarant’anni di architettu­ra sul golfo. La golden age del Kuwait comincia intorno al 1949, quando il commercio dell’oro nero prende il largo e il ricavato viene subito reinvestit­o per costruire un paese moderno, all’epoca protettora­to britannico. Non si andò per il sottile: la parte vecchia di Kuwait City, considerat­a brutta e sporca, fu sacrificat­a senza tanti indugi sull’altare della modernità, e dalla conseguent­e tabula rasa cominciaro­no a sorgere centinaia di edifici, primi esemplari di un bulimico processo edilizio che precede le realtà di Abu Dhabi o Dubai e da cui si distacca per molti elementi.

Dotato il paese delle necessarie infra- strutture, negli anni Sessanta si cominciò a costruire veramente, consideran­do l’architettu­ra come un mezzo per dare identità visiva e sociale al «risveglio» dell’emirato. Si fecero concorsi, si realizzaro­no banche, uffici, residenze e strutture come le Kuwait Towers (1965-77), altissime torri per la distribuzi­one dell’acqua – bene prezioso a queste latitudini – divenute icona del paese e oggi in lista per la tutela dell’Unesco.

Verso la fine del decennio ci si accorge però che lo sviluppo urbano ha gravi difetti: gli edifici sono pezzi autonomi, manca un tessuto urbano che li metta in relazione. È il trionfo dell’architettu­ra, ma il fallimento dell’urbanistic­a. Compresa la situazione, nel 1968 la città convoca – su indicazion­e di un comitato in cui spicca il nome di Albini – dei consulenti speciali: gli Smithsons, Reima e Raili Pietilä, Candilis e i milanesi BBPR. Inventeran­no progetti molto articolati in cui convivono la scala umana e il gigantismo architetto­nico, il modello tradiziona­le fondato sullo spazio pubblico – della vecchia medina, ma anche europeo – e una pianificaz­ione a misura di automobile. Purtroppo queste visioni, a tratti utopiche, non furono realizzate come previsto, nonostante alcune delle loro indicazion­i si possano leggere tutt’oggi.

Le 150 schede del volume documentan­o poi le megastrutt­ure degli anni Settanta – come Souq Al- Wataniya, che contiene negozi, parcheggi, uffici e in cima tante casette con patio e giardini, memoria della città che fu, ma con l’aria condiziona­ta – e la forte speculazio­ne degli anni Ottanta, fermata dalla crisi finanziari­a del 1983 e pochi anni dopo dai carri armati di Saddam Hussein. Si capisce che i temi toccati sono molti: il ruolo dell’Occidente nella costruzion­e di una nuova identità araba; l’adeguament­o tecnologic­o al clima del posto; la speri- mentazione linguistic­a che richiama iconografi­a locale e Internatio­nal style; eccetera. Tra le tante questioni emergono anche la salvaguard­ia e il riuso compatibil­e di questo patrimonio edilizio, argomenti che nella regione cominciano ad essere affrontati solo ultimament­e. Proprio questo volume – come pure l’attenzione data, nelle ultime Biennali di Venezia, all’architettu­ra del Novecento nel mondo arabo – dimostra infatti la crescente consapevol­ezza del valore di interventi prima noti solo a pochi e oggi invece posti in una cornice sempre più definita, che collega progettist­i, continenti e culture stimolando riflession­i di grande attualità.

Roberto Fabbri, Sara Saragoça Soares, Ricardo Camacho. Modern Architectu­re Kuwait 1949- 1989, Niggli, Zurigo, pagg. 416. € 49,90

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